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Titolo: Selbstvernichtung
Autore: Elendis
Serie: ispirato a "Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino", di Christiane F.
Pairing: original
Rating: PG13 - angst - deathfic - yaoi
Parti: 1
Status: concluso
Disclaimers: : Grazie a Giovina, che mi ha aiutato con la parola tedesca del titolo, che vuol dire autoannientamento
Archivio: HSC

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: Selbstvernichtung :

< Elendis >

Lo conobbi almeno cinque anni fa, quando mi ero appena trasferito a Berlino.
Avevo iniziato a frequentare il gruppo di alcuni miei compagni di classe, di cui anche lui faceva parte. Mi aveva colpito da subito per la sua aria di strafottenza; sembrava che nulla di quello che pensavano gli altri potesse scalfirlo. Fisicamente era bello, con grandi occhi azzurri e capelli biondi, ma non era per quello che si notava, in una città in cui quasi tutti hanno le stesse caratteristiche.
Era la sua aria di noncuranza ad essere estremamente affascinante; aveva la mia età quando lo conobbi, dodici anni, ma ne dimostrava almeno un paio di più.
Io ero un ragazzo facilmente impressionabile, per di più appena arrivato dalla provincia in una grande città, ed ogni cosa che facevano quei ragazzi mi sembrava meravigliosa.
Cercavo in tutti i modi di essere come loro, di essere totalmente parte del gruppo; cercavo anche di diventare suo amico, lo seguivo dappertutto, tentando di compiacerlo tanto quanto mi era possibile.
Allora non mi rendevo conto se ci fosse qualcosa di strano in questo; per me era normale ammirarlo tanto, e non so nemmeno esattamente quando qualcosa iniziò a cambiare nel nostro rapporto.
Pian piano, col passare dei mesi, diventai il suo migliore amico, quello che lo seguiva in tutte le imprese più strane, che lo accompagnava dovunque, senza chiedere nulla più della sua compagnia.
So che la nostra storia sembra patetica raccontata così, ma in realtà anche lui si stava affezionando a me, altrimenti non avrebbe avuto motivo di portarmi sempre con lui.
Noi due stavamo davvero bene insieme, parlavamo di tutto e ci capivamo perfettamente; non avevamo bisogno di nessun altro, men che meno di qualche ragazza.
Il nostro legame diventava sempre più stretto, sopravvivendo al passare del tempo.
Stavamo crescendo entrambi e cambiavamo rapidamente, ma quell'amicizia rimase, come un caldo rifugio in cui ritornare ogni volta che avevamo sperimentato qualcosa di nuovo.
Iniziammo a fumare più o meno nello stesso periodo, lui un pochino prima di me; a quel tempo l'hashish circolava in grande quantità tra i giovani, anche tra i ragazzi piccoli come noi.
Non ci rendevamo conto di quello che facevamo quando incominciammo anche a prendere pasticche di LSD. Allora ci sembrava una specie di gioco innocente, una cosa che non faceva nessun male e che era solo molto divertente.
Dopotutto lo facevano tutti, e nessuno ne era mai morto, giusto?
Passarono così un paio d'anni, alla fine dei quali ci mettemmo insieme sul serio.
Forse è strano che successe così naturalmente, tenendo conto che non era poi una cosa tanto normale, ma ormai ci conoscevamo così bene, e passavamo così tanto tempo insieme, che fu semplicemente un passo logico, che era stato nell'aria da sempre.


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È notte, e nel parco splendono le luci dei lampioni. I due ragazzi sono fermi, uno di fronte all'altro, a guardarsi negli occhi. Quello che si è fermato per primo, obbligando il compagno a girarsi e a controllare cosa succedesse, è alto e slanciato, con chiarissimi capelli biondi e luminosi occhi azzurri, che ora brillano nel fissare intensamente il volto dell'altro. Il secondo ragazzo è più basso, ha i capelli castano chiaro e il viso sottile, delicato. Sta aspettando senza fretta, le braccia incrociate sul giubbino di jeans e la testa sollevata contro il chiarore abbagliante del lampione.
Improvvisamente il ragazzo alto muove una mano, posandola con dolcezza su una guancia del compagno, che arrossisce leggermente sotto il suo tocco, abbassando lo sguardo.
«Alex, io... ecco...» inizia esitante, continuando a carezzargli il volto.
«Sì Martin, ho capito!» esclama l'altro, tuffandosi di slancio nelle sue braccia.
Il loro bacio sembra durare ore, sospeso nell'aria lieve della notte, illuminato dalla luce indiscreta del lampione sopra le loro teste. Sono bellissimi in questo momento, due anime che si rincontrano per completarsi a vicenda, per non lasciarsi mai, qualunque cosa accada.


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Iniziammo insieme a bucarci, quando succedeva a già tanti altri.
Non ce ne accorgevamo, ma ogni nostro passo ci portava in quella direzione.
Le nostre storie familiari disastrate - io vivevo con una zia alcolizzata e numerosi cugini, da quando mi ero trasferito a Berlino dopo la morte dei miei genitori, e lui con un padre violento che perdeva spesso il lavoro e sfogava la sua rabbia sul figlio - le continue notti fuori a sballarci, la vita vissuta giorno per giorno, le mattinate di assenza da scuola, le amicizie sempre peggiori, il voler dimenticare i nostri problemi negli stupefacenti... tutto portava dalla stessa parte.
Il nostro amore non bastava, per quanto vivessimo l'uno per l'altro non potevamo fare nulla per aiutarci a vicenda. La nostra vita stava scorrendo via troppo in fretta.
Non trascorse molto tempo da quando avevamo iniziato con l'eroina, che scappai di casa.
Andai allora a vivere da alcuni amici, nel cui appartamento già da tempo ci rifugiavamo entrambi, ogni volta che i nostri problemi diventavano troppo pesanti da sostenere.
Lui faceva avanti e indietro dalla casa del padre, allontanandosi per qualche giorno e tornando di nuovo quando aveva bisogno di soldi, o quando non reggeva più a stare per la strada.
Provammo un paio di volte a smettere, ma non ci riuscimmo.
La prima volta non resistemmo ai dolori della disintossicazione, e anche se ci eravamo chiusi in casa, chiamammo un nostro amico per farci portare della roba.
La seconda volta i genitori dell'amico da cui abitavo spedirono tutti noi nella loro casa in campagna; funzionò, e quando ritornammo a Berlino eravamo completamente depurati.
Facevamo mille piani, di andarcene da quella città e andare a vivere insieme da qualche altra parte, di riprendere la scuola o di trovarci un lavoro, di ricominciare a vivere la nostra vita, insieme.
Naturalmente il ritorno a Berlino rovinò tutto, ma dove avremmo potuto andare?
Non appena rimesso piede in città iniziammo a pensare di prendere per l'ultima volta un po' di eroina, e ricascammo completamente nel vecchio giro. A quel tempo avevamo sedici anni.
Bazzicavamo tutto il giorno negli stessi posti, circondati dalle stesse persone, alla continua ricerca di qualche marco per la prossima pera. I nostri soldi non bastavano mai, specialmente dopo che andai via da casa. Quello che riuscivamo a racimolare non era sufficiente, anzi diventava sempre meno col passare del tempo.
Ancora una volta, avevamo una sola strada davanti a noi.


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«No Alex! Non te lo permetterò!» grida il biondo, con le guance segnate dalle lacrime.
«Cazzo, Martin! Hai qualche altra idea?» il ragazzo si calma prima di riprendere a parlare.
«Non ho altra scelta, non lo vedi? Mi dispiace, ma non posso fare altrimenti. Non riesco a pensare a nessun altro modo in cui possiamo procurarci i soldi che ci servono.» Adesso anche lui sta piangendo, sente le lacrime scendergli lungo le guance senza riuscire a fermarle.
Quello che gli fa più male e lo sguardo sul viso di Martin.
«Ti prego, non fare così. Non lasciare che questo cambi qualcosa tra di noi.»
«Ma lo cambierà, non lo capisci? Sei il mio ragazzo e mi stai dicendo che andrai a fare marchette!» urla ancora il biondo, per poi accasciarsi su una panchina al bordo della strada.
Dopo qualche minuto di silenzio continua a parlare.
«No, hai ragione tu. Non c'è altro da fare. Scusami, Alex, scusami.»
«Non importa.» Sussurra nel suo abbraccio l'altro ragazzo, stringendosi forte a lui.


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Non era passato troppo tempo che anche lui decise di seguirmi in quella vita.
E davvero non potevamo fare altro, se volevamo continuare a sopravvivere.
Eravamo costretti a fare con estranei quello che ognuno di noi avrebbe voluto fare solo con l'altro, e ogni giorno tutto diventava più pesante, senza alcuna speranza.
Non ci facevamo più illusioni sul futuro, avevamo capito anche troppo bene che andando avanti in quel modo non avremmo potuto resistere ancora per molto.
Eravamo distrutti fisicamente e psicologicamente, e vivevamo cercando in tutti modi di non pensare alla nostra situazione. Quando stavamo bene parlavano di sciocchezze senza importanza, o di quanto ci amavamo - l'unica cosa che ci dava un po' di forza - e soltanto quando eravamo sotto l'effetto della droga, e ci sentivamo temporaneamente meglio, facevamo progetti sulla nostra vita insieme, e su quanto saremmo stati felici, prima o poi.
Quel periodo, di stabilità in un certo senso, terminò una mattina di ottobre, la mattina in cui il mio destino fu deciso una volta per tutte.


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Il ragazzo scende rapidamente le scale della stazione della metropolitana, dirigendosi verso un paio di persone sedute in un angolo.
«Avete visto Martin? È tutta la mattina che lo cerco.» Chiede ansioso.
L'unica risposta che riceve sono scrollate di spalle; in certi ambienti a un certo punto si smette di interessarsi degli altri, quello che conta è solo la tua sopravvivenza.
Preoccupato, col volto tirato dalla stanchezza, il ragazzo risale le scale, strascicando i piedi sui gradini consumati e sporchi. Non sa dove andare, è evidente che ha cercato in tutti i posti che gli sono venuti in mente, compresi i più improbabili.
La paura che sta cercando di impedirsi di provare diventa sempre più forte, e i suoi pensieri corrono verso un'unica direzione, quella che gli suggeriscono tutte le esperienze di mesi da eroinomane.
In un ultimo tentativo, decide di andare a vedere nell'ultimo posto a cui ha pensato, i bagni del Treibhaus. È veramente l'ultima disperata idea che ha. Se non è lì, non sa proprio che cosa fare.
Purtroppo è lì. Il ragazzo sussulta violentemente alla vista del corpo riverso sul pavimento piastrellato del bagno, adagiato scompostamente con le schiena contro la parete e la siringa ancora infilata nel braccio. Non riesce a piangere, può solo guardare inorridito e incredulo il cadavere del suo amore, del ragazzo che significava tutto per lui.


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Sapevo che c'era solo una cosa che potevo fare. Non mi posi nemmeno la scelta, non provai ad esplorare qualche altra possibilità.
Semplicemente non ce n'erano.
Per me era finito tutto quando era finito per lui. Non avevo nient'altro da fare in questa vita.
Non riuscivo a capire perché fosse successo proprio a lui; anche se immaginavo già i titoli dei giornali e le parole della gente, sapevo che non si era ucciso. Non lo avrebbe mai fatto.
Se un giorno fossimo arrivati al limite, lo avremmo fatto insieme, ne avevamo parlato molte volte.
Iniziai subito a cercare quella che sarebbe stata la mia ultima pera di eroina, e la trovai presto.
Non pensavo a nulla, se non che presto sarebbe finito tutto, come desideravo.
Andai nei gabinetti della Bundesplatz, ampi e puliti, dove già molti si erano suicidati.
Mentre preparavo la siringa pensavo a lui, e mi chiedevo se lo avrei mai rivisto, e chissà dove.
Non mi sentivo particolarmente triste, né avevo rimpianti per il mondo che mi stavo preparando a lasciare; ormai ero arrivato oltre tutto questo. Avevo compiuto da poco diciassette anni.
Mi sparai un intero grammo nel braccio sinistro.
Sentii chiaramente e lucidamente il cuore che mi balzava impazzito nel petto e il cervello che mi si spaccava in mille pezzi, prima che le tenebre mi circondassero.














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