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Partenza per Neskaya

Allart Regis-Duvic Hastur MacAnndra

L'indomani fu, per Allart e per tutta la Grande Casa, una di quelle giornate convulse che lasciano nella memoria soltanto un'impressione frammentaria e confusa. L'arrivo della leronis di Neskaya non era certo passato inosservato e, in qualche modo, la servitù ne aveva indovinato lo scopo prima ancora che l'esame del ragazzo avesse inizio: i pettegolezzi erano fioriti durante la notte, alimentati forse dalla terra dei sogni, forse dalla luce delle quattro lune, e l'alba sorse a illuminare una Valle quasi dilatata dall'insolita moltitudine di echi, sussurri, bisbigli e voci antelucane. Il domnino possedeva il laran, i poteri degli Hastur, sarebbe diventato un Sapiente, partiva per la Torre...
L'alba, inoltre, ridestò Dom Damon - che, non appena alzato, cominciò ad impartire ordini, confermando altresì le voci della notte - e lo stesso Allart, cui l'eccitazione, peraltro, aveva pressoché impedito di dormire. Così, il ragazzo si trovò a ciondolare, molto insonnolito, nel cuore del fermento mattutino, annaspando nel tentativo semiconscio di compiere la consueta traversata della Grande Casa fino alle abluzioni ghiacciate che segnavano l'inizio delle sue giornate. Il suo stato comatoso gli impedì di notare il timore reverenziale con cui lo guardavano - anzi, lo fissavano - tutti i servitori, ma la prontezza con cui si scostavano gli evitò parecchi urtoni e anche qualche caduta; giunse alla meta con due o tre lividi soltanto - oltre, naturalmente, alla ricca collezione accumulata durante gli allenamenti con il padre - e, se possibile, ancor più stanco di quando si era alzato.
Il ghiaccio e l'acqua gelida riuscirono a strapparlo, almeno in parte, alla trappola di un cervello che stava urlando il proprio spaventoso debito di sonno; riuscì a trascinarsi in cucina per la colazione (le cameriere, impegnate in un frenetico andirivieni dalla dispensa, lo evitarono per un pelo, ma il ragazzo scorse solo qualche ombra rosata ai margini di un campo visivo ridotto al minimo) e, finalmente, una dose tripla di jaco - somministrata da sua madre, che non incontrava difficoltà di sorta nel governare il caos dei preparativi e, contemporaneamente, sorvegliare i figli - compì il miracolo: il viso di Allart si animò, perdendo, infine, l'espressione del dormiente, nei suoi occhi ricomparve qualcosa di simile alla consapevolezza e, buona ultima, si destò anche la voce:
«Buongiorno, Rael,» disse, non appena ebbe messo a fuoco il fratellino. Si schiarì leggermente la voce - che gracchiava ancora un po', nonostante il jaco - e aggiunse: «Buongiorno, madre.»
«Buongiorno, figlio mio.» Alanna dirigeva le cinque cameriere a gesti, con l'abilità di un direttore d'orchestra e la grazia di una danzatrice o di una mima: grazie alla lunga pratica, ciascuna delle ragazze coglieva al volo il cenno diretto a lei ed eseguiva il relativo comando senza fiatare, letteralmente. Domna Hastur non aveva mai gradito discutere con la servitù e quel sistema, interamente non verbale, impediva in radice ogni discussione. Nessuno, a Navan, avrebbe mai saputo indovinare che anche un'altra ragione, inconfessata, l'aveva spinta a introdurlo: una nostalgia per i kyrri della Torre, servitori tanto silenti quanto impeccabili.
Adesso, dunque, notando che il figlio maggiore era finalmente riemerso dal mondo dei sogni, accennò alla ragazza incaricata di avvicinare il secondo vassoio di focacce spalmate con burro e miele (Rael stava finendo il primo). Quasi meccanicamente, Allart cominciò a mangiare.
In realtà, la testa del ragazzo, svanita l'ebbrezza della notte ormai trascorsa, era pervasa da una preoccupazione profonda, non molto distante dalla paura. I sensi, finalmente desti, lo stavano ragguagliando circa l'attività frenetica, abilmente governata da sua madre a gesti, dal Dom a urlacci; e questa gran mole di informazioni dipingeva, sempre più netto, il quadro della partenza imminente. Sarebbero partiti l'indomani, è vero, ma soltanto perché sarebbe stato assolutamente impossibile preparare i bagagli in un lasso di tempo più ristretto: Domna Melora era stata molto chiara sull'urgenza del viaggio e sui pericoli di un ritardo. Non erano tali pericoli a preoccupare Allart - che, diversamente da molti giovani Comyn, non sapeva pressoché nulla del malessere della soglia - bensì il pensiero di dover lasciare la sola casa, il solo mondo che conoscesse.
Come sarebbe stata, la Torre? Avrebbe potuto addestrarsi con la spada, o sarebbe diventato un portatore di sandali? Ma addestrarsi con chi, poi? Sapeva che presso le Torri erano stanziati distaccamenti di Guardie, ma non sapeva se si allenassero con i giovani Comyn. I loro ufficiali erano scelti tra i Comyn... ma non era un ufficiale.
E poi, a pensarci bene, non era così sicuro che avrebbe avuto il tempo di addestrarsi.
Cosa si faceva in una Torre, dopotutto? Magie di ogni genere e specie, questo era certo; ma quanto tempo, quanta energia richiedevano?
Si sentì prudere le gambe per il desiderio di una cavalcata; avrebbe ancora potuto cavalcare?
Suo padre gli aveva promesso che avrebbero addestrato un falco insieme, quell'estate: ormai era grande abbastanza.
E, di colpo, stentava a ricacciare le lacrime, a respirare e deglutire, nonostante gli sforzi: un groppo gli serrava la gola.
Il resto della colazione non lasciò tracce nella sua memoria; non si accorse neppure di essere osservato dal fratellino con particolare intensità.
Terminato il pasto, si alzò, vacillando leggermente sulle gambe rammollite dalla stanchezza. Non sapeva che fare, dove andare e stava per chiedere istruzioni in merito quando, nell'attività silenziosa, ma frenetica, delle cucine, fece irruzione suo padre.
Dom Damon era leggermente trafelato: «Allart, sei pronto? Ottimo. Vieni con me nello studio, debbo parlarti.»
Il ragazzo tremò: lo studio era il luogo dove tutte le sue marachelle finivano smascherate e severamente punite. Fino a quell'inverno, era stato anche il luogo delle lezioni pomeridiane con fratello Caleb, un vecchio monaco cristoforo portato sulla loro soglia chissà da quali eventi, che insegnava all'erede di Navan le difficili arti della lettura e della scrittura. Neanche quel ricordo gli riusciva gradito: più volte aveva chiesto, richiesto, implorato il padre di risparmiargli quella tortura, di non farlo diventare un portatore di sandali, ma si era sempre sentito rispondere (a parole prima, a scapaccioni poi) che era suo dovere imparare a leggere e scrivere per poter amministrare a dovere il feudo e non essere imbrogliato dagli amministratori.
Al Solstizio d'Inverno, suo padre aveva deciso che il rampollo aveva imparato abbastanza e fratello Caleb li aveva lasciati, nient'affatto preoccupato all'idea di mettersi in viaggio nella stagione peggiore. Ma il suo inatteso dono di addio era riuscito a conquistare Allart.
Ricordava ancora il sorriso del vecchio, di fronte alla sua faccia scura: «Lo so, ragazzo mio, lo so bene che odi la pergamena e tutto quello che c'è scritto sopra... ma credo proprio che questo libro ti piacerà.»
Allora si era limitato a fissarlo con aria scettica, augurandogli il migliore dei viaggi (fino al nono inferno di Zandru!), ma quella sera stessa, quando il senso del dovere lo aveva forzato a compitare le prime righe del manoscritto, era stato costretto a ricredersi. Aveva letto fino al canto del gallo, avvinto dalla "Ballata di Hastur e Cassilda", e poi da mille e mille altre leggende... Finalmente le storie che tanto amava erano a sua disposizione, ogni volta che le desiderava! Finalmente non era più costretto ad aspettare che gliele raccontassero!
«Siediti.»
Allart trasalì: era stato troppo assorto nei propri pensieri per accorgersi di essere entrato nel famigerato studio.
La pianta ellittica della stanza, studiata per sfruttare al meglio la luce dell'unica finestra, suggeriva tranquillità, forse addirittura raccoglimento; ma la memoria gli ricordava, con ricchezza di dettagli, quanto fosse ingannevole quell'impressione di calma e pacatezza, peraltro accentuata dalle poltrone confortevoli e dalle linee morbide della scrivania. No, se calma allignava nella stanza, era la calma glaciale del guerriero, nell'istante che precede il colpo decisivo.
Obbedì al padre e si sedette, appollaiato sull'orlo della poltrona come se non vedesse l'ora di scappare; ma Dom Damon non prese posto dietro la scrivania e quest'inaudita infrazione alla consuetudine riuscì, infine, a raffrenare l'immaginazione troppo ardita di Allart, che già gli stava prospettando diecimila colpe e centomila castighi. Alzò gli occhi verso il padre, sorpreso, e incontrò uno sguardo strano, quasi assorto, che poté solo accrescere la sua perplessità.
«Mi fa piacere che tu non abbia perso tempo a poltrire, Allart,» esordì Dom Damon. Ma che esordio strano! Suo padre, il Signore di Navan, ben noto per l'audacia e l'irruenza con cui prendeva di petto qualsiasi problema o argomento che fosse, si comportava come se volesse prendere tempo.
Anzi, sembrava addirittura...
"Sulle spine?! Impossibile!"
Impossibile, certo; eppure, come spiegare altrimenti il disagio, così evidente in tutta la sua postura? Ancora in piedi, Dom Damon continuava a spostare il peso da una gamba all'altra. Ad Allart parve di rivedere se stesso, le mille occasioni in cui aveva compiuto quel medesimo gesto, tremando in attesa della giusta punizione. Se possibile, la sua apprensione crebbe ancora.
Infine, il viso molto più serio del consueto, suo padre parlò, in casta e con il tono solenne del Signore di Navan: «Allart, figlio mio, non avrei mai potuto lasciarti partire senza la mia benedizione, ma volevo che essa avesse, come dire, un contenuto tangibile. Ricordi cosa ho ricevuto da mio padre, quando sono partito per Thendara?»
Ad Allart si mozzò il respiro in gola. Aveva capito bene? Possibile che suo padre intendesse...?
«Ho pensato spesso, negli ultimi tempi, all'eventualità che tu partissi,» riprese suo padre, senza notare (o fingendo di non notare) la sua espressione, a metà tra l'attonito e lo speranzoso. «Dopotutto, sei giovane e i giovani, si sa, sognano sempre grandi avventure. Inoltre, tu appartieni al clan degli Hastur e, perciò, il Consiglio non potrebbe rifiutarti un posto tra i Cadetti della Guardia; anzi, stavo addirittura pensando di scrivere io stesso due righe a Thendara, o di recarmici di persona...» Scosse il capo. «E invece, guarda un po' che sorpresa! Mio figlio deve diventare un Sapiente.» Tacque per un momento, incapace di nascondere la piega amara delle labbra; ma gli riuscì di correggerla in un sorriso mesto. «Sai come si dice, no? "Il mondo va come vuole, non come vorremmo io e te"
Si concesse un'altra pausa, mentre Allart, ancora incredulo, si sforzava di accettare quanto aveva appena sentito. Suo padre, andare a Thendara, per lui? Suo padre che lo giudicava adatto ad entrare nei Cadetti?
Riuscì solo a pensare, una volta di più: "Impossibile!"
Ma Dom Damon aveva già ripreso a parlare:
«Naturalmente, non mi sono limitato a pensare alla possibilità di una tua partenza, ma ho anche preso qualche provvedimento: sei mio figlio e sarebbe un disonore per entrambi, se partissi dalla tua stessa casa portando con te poco più dei vestiti e della tua cavalcatura, come se questa Valle non potesse offrirti altro. No, Allart: tu avrai quello che ho avuto io da mio padre, e qualcosa di più.»
Ma allora, voleva proprio dire...?
«Sei più giovane di quanto non fossi io, al momento di partire,» proseguì Dom Damon, «ma sei anche stato addestrato molto bene... direi che conosci la scherma più o meno quanto la conoscevo io. Di conseguenza, sono convinto che tu possa e debba portare una spada.» Detto questo, aprì il lungo mantello di pelliccia, estraendone una lama protetta dal fodero. La bellezza dell'elsa dorata, del cuoio nero e lustro, fece quasi venir meno Allart, che osava a malapena respirare.
Il padre gli chiuse entrambe le mani intorno all'elsa, fissandolo negli occhi.
«Non pensavo certo di consegnartela prima del tuo quindicesimo compleanno, figliolo; non pensavo neppure di metterti in mano una vera lama, non prima di un altro anno di addestramento. Dopotutto, sono personalmente responsabile dei tuoi atti, fino a quando non avrai raggiunto la maggiore età. Ma credimi: sono felice che il momento sia venuto così presto!» Sorrise, e questa volta era un vero sorriso. «Anche se la tua tecnica non è ancora impeccabile, anche se a volte ti distrai, tu sei pronto, figlio mio. E gli Dèi sanno quanto io sia orgoglioso di te!»
Per un attimo, sembrò che stesse per abbracciarlo e Allart temette di scoppiare in lacrime o di commettere qualche altra stupidaggine infantile. Probabilmente, Dom Damon glielo lesse in viso, perché riassunse l'espressione severa e concluse:
«Portala con onore, figliolo, e usala con onore. Aldones ti accompagni.»
Nient'altro. Ma - pensò Allart, raggiante, mentre si allacciava il fodero alla cintura - non era forse tutto quello che era necessario dire?
A quanto pareva, no. Dom Damon si schiarì la gola, mostrando un leggero imbarazzo, e aggiunse:
«Beh, come ti dicevo, voglio darti anche qualcosa di più... voglio che la mia benedizione abbia un... un contenuto tangibile, sì. Anche questo è per te.» E gli mise in mano un semplice sacchetto di cuoio, che il ragazzo, incuriosito, si affrettò ad aprire. Conteneva una discreta quantità di monete, sia di rame sia d'argento, e Allart alzò gli occhi sul padre, profondamente sorpreso: il conio si vedeva raramente nella Valle, lontana dalle piste battute dai mercanti e autosufficiente in tutto, tranne che nel metallo per le armi, che, però, veniva barattato con oggetti graditi al Popolo delle Forge. Il ragazzo, tuttavia, conosceva le monete, perché Dom Damon aveva voluto che il suo erede sapesse contrattare con un eventuale mercante di passaggio, e ne sapeva abbastanza per capire che il padre gli stava affidando una piccola fortuna, messa insieme Aldones sapeva come.
La nebbia, sempre in agguato ai margini della sua memoria, approfittò dello stupore per divorare un'altra fetta della giornata; si ritrovò in cucina, di fronte a sua madre, che aveva appena degnato di un cenno condiscendente la meraviglia, il tesoro che gli pendeva al fianco. Alanna Hastur, mantenendo sempre un rigido silenzio, gli indicò l'involto che stava sul tavolo di cucina, esortandolo ad aprirlo. Conteneva libri, pergamene, inchiostro,... e un pugnale ricurvo, dal fodero intrecciato, la lama ornata di complicati disegni.
Allart, piacevolmente sorpreso, osò spezzare il muro del silenzio:
«Madre, non avrete anche voi un sacchetto di conio!» Scherzava soltanto a metà, perché, ormai, non si sarebbe sorpreso neppure se l'avesse sentita imprecare in cahuenga. La donna sorrise:
«Non avrai bisogno di denaro, alla Torre. Ma tuo padre ha fatto bene a pensarci, non si sa mai.»
Anche qui, non si erano forse detti tutto?
Ancora una volta, il ragazzo si sbagliava: con improvvisa gravità, sua madre aggiunse:
«Non potrai portare Fiocco di Neve con te.»
Allart sapeva bene che nella frase, sotto le sembianze dell'affermazione, si celava un ordine, indiscutibile e incontestabile, come tutto ciò che proveniva dai genitori; quindi tacque e non tentò neppure di protestare, ma il lampo dei suoi occhi fu tanto eloquente che sua madre si sentì in dovere di fornirgli una spiegazione, sia pure nel suo tono più solenne:
«Non puoi presentarti alla Torre, ai tuoi pari e,» abbassò la voce, «alla Custode in groppa ad un pony: ne andrebbe del nostro onore. Soltanto poveri e bambini cavalcano i pony: noi poveri non siamo e tu vai in un posto da uomini: checché ne dica la legge, basteranno pochi mesi nella Torre a renderti uomo. Perciò, l'onore degli Hastur e il buon nome della Valle esigono che tu parta in sella ad un vero cavallo.»
Un cavallo! Era ciò che aveva sempre sognato, subito dopo la spada; ma non avrebbe mai voluto riceverlo così, non avrebbe voluto dire addio a Fiocco di Neve.
Eppure, con la fretta di chi cerca di non scappare e di non mettersi a piangere, si diresse alle scuderie, per i saluti più silenziosi, e tuttavia più difficili.
La sua memoria rifiutò di conservarne traccia. Eliminò tutto il resto della giornata, serbando solo un'impressione di stanchezza opprimente: troppe cose da fare, troppi volti da salutare... sonno...
La sera, una voce, da qualche parte nello spazio esterno, osservò che tutto era pronto. Riuscì solo a pensare: "Finalmente posso andare a dormire."


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Il canto del gallo suonò particolarmente stridulo alle orecchie assonnate di Allart. Era riuscito a dormire soltanto perché sopraffatto dalla stanchezza, ma non si sentiva riposato, proprio per niente. Gemette, ricordando che lo attendeva una cavalcata lunga e spossante.
Come gli Dei vollero, riuscì ad alzarsi e prepararsi, mentre, da qualche recondito recesso del suo organismo, affluivano nuove ed insospettate energie. Si diresse verso la cucina, per la colazione, con passo lesto, gli occhi ancora cerchiati per la stanchezza,ma di nuovo attenti. Tuttavia, non notò il fratellino, che lo attendeva fuori della soglia e che, così, fu costretto a chiamarlo, prima che entrasse.
«Allart!»
Il ragazzo si voltò, con una leggera sorpresa:
«Dimmi, Rael.»
Il bimbo si sforzava di trattenere le lacrime, ma, evidentemente, non si fidava della propria voce; si limitò a scuotere la testa, in modo così triste che Allart, d'impulso, si chinò e lo abbracciò stretto.
«Non andare,» gli sussurrò il fratellino tra i capelli.
«Non ho scelta. Se restassi qui, rischierei di morire.» Era la pura verità, purtroppo, e se ne rendeva conto appieno soltanto adesso. "Non aveva scelta."
Rael, adesso, piangeva come soltanto un bambino può piangere.
«Non voglio che tu muoia!» riuscì a dire, tra un singhiozzo e l'altro. «Non come i cavalli, e le piante, e non vederti più...»
"Che bello essere bambini, poter piangere senza vergogna..."
Si sforzò di assumere un tono rassicurante, di mettere a tacere le proprie paure insieme con quelle di Rael. «Io non morirò, fratellino. Tornerò qui e giocheremo di nuovo insieme.»
Il bimbo lo fissò in silenzio, gli occhi ancora luccicanti, pronti a versare altre lacrime. Tremava, povero piccolo.
Allart lo guardò fisso, ripescando un'espressione solenne dal cumulo di insegnamenti materni. «Hai la parola di un Hastur.»
E Rael sorrise; appena l'ombra di un sorriso, ma fu sufficiente.
Entrarono in cucina e fecero colazione, tutti insieme.
In silenzio.
Si erano già detti tutto.
Vero?
«Nobile Allart?»
«Vai leronis
«Tutto è pronto.»
«Sono pronto anch'io. Possiamo andare.»
E si sentiva pronto davvero, come se, salutando il fratellino, avesse finalmente trovato la forza di lasciare tutto ciò che amava. Non avrebbe perso niente: tutto - persone, case, animali, alberi... - sarebbe rimasto lì, così com'era, ad aspettare il suo ritorno.
Partiva solo per poi tornare. Vero?


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Di lì a poco, una piccola comitiva a cavallo lasciava la Grande Casa di Navan. La strada principale era deserta, poiché tutti gli abitanti della valle, a quell'ora, attendevano alle ordinarie occupazioni; così, un ragazzo dai capelli rossi, con un'espressione assorta che pareva incongrua su un viso modellato per la risata o per il comando, poté mormorare tra sé:
«Adelandeyo
Indifferente, il paesaggio familiare continuò ad allontanarsi. Là, gravido di promesse, sogni e speranze come mai prima, si apriva l'orizzonte e il futuro luccicava dorato sulle acque del torrente. Laggiù, sopra le terre su cui il giovane Hastur non aveva mai cavalcato, splendeva il mattino del potere e della gloria.
Nessuno - forse neanche Allart stesso - notò la lacrima solitaria che scorreva lungo la sua guancia.









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Disclaimers

La sera del suo dodicesimo compleanno, dopo il controllo da parte di Melora, Allart Hastur apprende di essere un telepate. Due giorni dopo parte per Neskaya, insieme con Melora, che teme che il ragazzo sia vicino alla sua prima crisi di malessere della soglia.

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Ultimo aggiornamento: 31/12/2008