[Home] [La storia del Progetto Elvas] [Regole Utilizzate]
[Personaggi] [Luoghi] [Racconti] [Download]
[Cronologia] [Genealogia] [Dizionario] [Musiche] [Immagini e Disegni]
[Giocatori] [Incontri] [Aggiornamenti] [Credits] [Link] [Mail]
barra spaziatrice
[torna a Racconti] [E.S.T. dE +3, febbraio (25)] [Credits & Disclaimers]



Aurora sogna

Aurora n'ha Viviana

Combatteva.
Le sue mani stringevano sicure due coltelli, le lame soltanto lampi di luce per la rapidità con cui si muovevano. Sentiva il sudore colarle sul viso e bruciarle sulla ferita allo zigomo, chiusa ormai da molti mesi. Sentiva le braccia dolere per la fatica del combattimento, ma restava salda sulle gambe, muovendosi in fretta. Il suo corpo ne sapeva più di lei: non doveva far altro che seguire l'istinto.
Sangue sulle sue mani, sangue che cadeva sul pavimento della stalla, la stalla della sua famiglia che non avrebbe mai dimenticato. Che si raggrumava sulla polvere e sulla terra battuta, scuro come vino. Ma stavolta il sangue non era il suo.
Il corpo di un uomo riverso. Non le servì guardarlo due volte per capire chi fosse.
Mentre serrava i denti in un ghigno e la mano sinistra, improvvisamente libera, le tergeva il sudore dalla fronte, un manto grigio scese a posarsi sulle sue spalle. Era stato qualcuno dietro di lei, qualcuno molto più alto, a coprirla in quel modo.
L'ultima cosa che vide fu un volo di corvi che si levava nel cielo.


barra

Fu Davin a svegliarla. Il suo udito, sviluppato e attento come quello di ogni madre, le fece percepire il vagito del figlio, ed istintivamente si allungò per prenderlo in braccio, non ancora del tutto sveglia.
"L'ho ucciso, Davin, lui è morto ed io sono libera, ed anche tu. Adesso nessuno potrà dire che non sei soltanto mio!"
Subito dopo la mente si schiarì, ed Aurora si rese conto di aver sognato. Ma era stato così reale!
Si slacciò la camicia da notte ed offrì il seno al piccolo, per evitare che Maia si svegliasse: che coraggio, dividere la stanza con una madre ed un neonato! Per fortuna, la maggior parte delle notti la sua Sorella di Voto andava a letto così stanca che non si sarebbe resa conto nemmeno se una bufera di neve avesse impazzato proprio sopra al suo cuscino.
Mentre cullava suo figlio, continuò a pensare al sogno. Era così reale! Le sembrava di sentire l'eco della fatica nei muscoli di braccia e gambe (probabilmente li aveva contratti nel sonno), il calore successivo all'esercizio fisico (con un bambino accanto e due coperte, non era così strano aver caldo), ma soprattutto il senso di trionfo. Desiderava che Donal fosse morto, lo desiderava sul serio! Il suo bambino non sarebbe mai stato Davin MacDonal, né tanto meno avrebbe portato il cognome dell'uomo che l'aveva concepito, ma questo non cambiava il modo in cui era stato concepito.
Per mesi aveva accantonato i propositi di vendetta e l'odio, concentrandosi su se stessa e sul figlio che avrebbe avuto, ma adesso che aveva partorito forse poteva permettersi di pensarci. Il sogno le aveva ricordato cosa l'aveva spinta nei momenti di tristezza e depressione, quando si era sentita sola prima di rivedere Maia, quando le era sembrato di avere tutta la Gilda contro soltanto perché non conosceva gli usi delle Sorelle, quando si era interrogata per giorni e notti sul futuro suo e della creaturina che aveva in grembo.
La consapevolezza che lei, Aurora, non aveva fatto niente di cui vergognarsi, che era stata soltanto una vittima incompresa. Ma che presto o tardi sarebbe stata abbastanza forte per affermare i propri diritti e le proprie ragioni.
Le ragioni di una ragazza strappata alla sua vita.
Il diritto di farsi giustizia.
Spostando Davin da un seno all'altro, rifletté sull'ultima parte del sogno. Un mantello... qualcuno che la copriva con un mantello. E degli uccelli. Batté le palpebre, cercando di ricordare meglio, ma non ci riuscì. Le immagini le tornavano alla mente confuse. La luce grigia dell'alba iniziava a filtrare fra gli scuri, e decise che non si sarebbe più riaddormentata. Rimase per un po' nel letto, cullando il bambino e sussurrandogli parole senza significato, fino a quando non sentì Maia agitarsi.
In quel momento si accorse che i panni che avvolgevano Davin erano diventati umidi, e trattenne una risata.
«Hai scelto proprio il momento adatto, adesso svegliamo la zia!» Gli sussurrò, alzandosi dal letto. Ormai le fitte al bassoventre erano sparite, ed il suo corpo stava lentamente tornando quello di prima. Poteva alzarsi dal letto relativamente in fretta, considerando che aveva il figlio in braccio, e senza alcun fastidio.
Si mosse in silenzio: aveva già preparato dei panni asciutti e puliti sul baule ai piedi del letto, e non svegliò Maia. La sorella si era comunque già svegliata da sola, quando Aurora fu tornata dalla stanza da bagno ed ebbe sistemato il bambino nella culla accanto al letto. Probabilmente si sarebbe addormentato entro pochi minuti e non si sarebbe risvegliato fino a metà mattina per un'altra poppata.
«Buondì, Maia, ben svegliata.»
Maia era semisdraiata sul letto, con i capelli a coprirle gli occhi semichiusi, e borbottò qualcosa che poteva sembrare un saluto. Ma Aurora non era sicura che non fosse un'imprecazione.
«A furia di sentirti borbottare al mattino, Davin non imparerà mai a parlare.» Si sfilò la camicia da notte ed iniziò a vestirsi con abiti comodi, ormai un po' troppo ampi. «Va bene se apro la finestra?»
Maia rispose con un altro borbottio affermativo, pettinandosi con le mani.


barra

Più tardi, Aurora scese nella palestra della Gilda, dove Marisela aveva iniziato una lezione di scherma. Due Rinunciatarie si stavano allenando con le spade di legno e Marisela dava loro suggerimenti e consigli.
Aurora le fece un cenno e la donna le si avvicinò.
«Buongiorno, Aurora, come va?»
«Buongiorno a te. Sto bene, grazie, e vorrei fare un po' di esercizio. Come ben sai, negli ultimi mesi una montagna ha fatto più movimento di me, ed ho veramente bisogno di sgranchirmi ed allenarmi un po'. E anche prima, non ho imparato che poche mosse con la spada, che ho quasi dimenticato...»
«Hai fatto molto bene a venire. Ci sono anche degli esercizi che fanno bene alle donne che hanno partorito da poco: ti aiuteranno a riprendere confidenza con il tuo corpo e a recuperare le forze. Così fra qualche decade potrai riprendere in mano un coltello di legno, e vedremo cosa ricordi delle lezioni.»
Aurora aggrottò le sopracciglia: aveva sperato di poter ricominciare subito, ed imparare la tecnica con la doppia arma...
«Non posso iniziare con qualche esercizio di lotta? Mi piacerebbe molto imparare...» Lanciò un'occhiata significativa alle donne che si allenavano.
«Credo sia ancora presto: hai partorito da un paio di decadi, no? Ed è il tuo primo figlio.»
«Sì, ma mi sento molto meglio.» Rispose subito con convinzione. «E poi ho bisogno di muovermi. Per favore, sorella, mi piacerebbe molto. E poi non mi sembra corretto verso voi altre, essere qui da mesi e non essere ancora in grado di difendermi da sola!»
Marisela sembrò apprezzare quell'argomentazione, e la sua sicurezza iniziò a vacillare, ma solo per un momento.
«Se ci tieni tanto, forse potremmo iniziare... con qualche esercizio preparatorio per braccia, gambe, schiena e addome. Ma per prendere in mano un coltello, anche di legno, dovrai aspettare ancora un po'.»
«Ma...» In quel momento Gwennis apparve sulla porta della stanza, e fece un cenno che poteva essere di saluto come di richiamo verso l'istruttrice.
«Lo dico per te, Sorella. Devi fare un po' di esercizio, prima di impugnare l'arma.» Concluse Marisela, allontanandosi in direzione della Madre della Gilda. «Scusami, ma sembra che oggi tutti abbiano bisogno di me! Fatti mostrare gli esercizi preparatori da qualcuno, e più tardi io ti spiegherò come fare quelli per le puerpere.»
Aurora rimase per un momento ferma sul posto. Desiderava talmente essere in grado di combattere! Rivoleva la sensazione di due coltelli fra le mani, come prolungamenti delle braccia, la velocità dei movimenti, quel dolore che le era sembrato quasi piacevole nei muscoli, e soprattutto quella sensazione di trionfo, di potere...
Alyssa n'ha Mhari, una Rinunciataria di passaggio, che alloggiava a Elvas da una settimana, le si avvicinò per salutarla e, dopo qualche convenevole, Aurora le spiegò il motivo che la portava in palestra.
«Ho detto a Marisela che vorrei imparare a far qualcosa con un coltello, ma mi ha risposto che ho bisogno di un po' di esercizio, prima.»
«Ho sentito quello che ti diceva andando via, è naturale,» le rispose la Sorella, «non puoi sottoporre a tutto quello sforzo il tuo corpo che è appena uscito dal letto: devi abituarlo per gradi. Mi sono appena alzata anch'io: facciamo qualche esercizio insieme e poi ti sfiderò a duello!»
L'altra aveva frainteso le parole di Aurora e quelle di Marisela: l'attesa avrebbe dovuto essere di qualche decade, non di qualche minuto. Ma forse questo le sarebbe servito ad imparare finalmente qualcosa! Decise di tacere e seguire l'altra. Se si fosse stancata, avrebbe sempre potuto dire di dover allattare Davin!
I primi esercizi non le sembrarono troppo faticosi, ma si trovò presto a corto di fiato: la mancanza di allenamento si faceva sentire. Alyssa se ne accorse e rallentò un po' il ritmo per venirle incontro, ed Aurora ne fu sollevata. Tuttavia, poco dopo, iniziò a sentire delle fitte alla schiena, che andarono sempre più aumentando, fino a costringerla a fermarsi con una smorfia di dolore.
«Sei stanca? Beh, immagino che possa bastare. Aspettami qui.» Alyssa andò a prendere due spade di legno da una rastrelliera, dandole qualche istante di sollievo. Il mal di schiena diminuì impercettibilmente, e Aurora si disse che forse avrebbe potuto farcela. Dopotutto, anche quando aveva iniziato ad andare a cavallo aveva avuto mal di schiena e di gambe per giorni, ma poi aveva imparato!
Alyssa tornò con le spade e gliene diede una.
«Sai già come metterti in posizione?» Aurora glielo fece vedere. «Bene, allora guarda questa mossa.» Fece finta di attaccarla, mantenendosi piuttosto distante da lei. «E questa parata.»
La parata era esattamente complementare all'affondo che aveva visto e, quando la Sorella glielo propose, provò a rifare entrambi. Doveva averli già studiati, molti mesi prima, ma ricordava ben poco. Il suo corpo sapeva come muoversi, ma soltanto se non ci pensava troppo. Al terzo tentativo se la cavò abbastanza bene perché l'altra le proponesse di fare l'esercizio insieme, ma la schiena continuava a farle male.
«Io fingerò di attaccarti e tu parerai il mio colpo. Stai attenta alla posizione dei piedi, mi raccomando.»
Ma qualcosa andò storto: forse la posizione dei piedi, oppure l'impeto eccessivo dell'attacco, o magari si era semplicemente spaventata, e si ritrovò a terra, tutta dolorante. La schiena sembrava appoggiata sul fuoco e non riusciva a muoversi. Sentì la voce di Marisela lanciare un'imprecazione e si vergognò come poche volte le era successo. Aveva voluto dimostrarle di essere in grado di fare tutto ciò che desiderava, ed era riuscita solamente a fare la figura della stupida.
«Che cosa vi è saltato in mente, ragazze? Aurora n'ha Viviana, sei una ragazzina testarda, e tu, Alyssa n'ha Mhari, non lo sai che ha partorito da meno di venti giorni? Come ti è venuto in mente di metterle una spada in mano?»
Aurora avrebbe voluto alzarsi, mentre sentiva l'altra scusarsi a mezza voce, ma il dolore glielo impediva. In qualche modo, si mise seduta.
«Mi dispiace, Marisela, la responsabilità è soltanto mia. Alyssa non aveva capito la mia situazione ed io non gliel'ho voluta spiegare perché volevo imparare a tutti i costi. Adesso capisco che avevi ragione.» Disse, mantenendo gli occhi bassi, anche per non far vedere le lacrime di dolore.
«Bene, credo che tu abbia già avuto la punizione per la tua avventatezza. Ho addestrato dozzine di ragazze e so bene cosa ci si deve aspettare dopo un parto, quindi non parlavo a vanvera. Comunque, adesso lo sai. Dove ti fa male?»
«La schiena.» Rispose laconicamente. La donna l'aiutò ad alzarsi e la sostenne.
«Speriamo solo che non ti sia slogata niente, altrimenti dovrai aspettare ancora dell'altro tempo prima di poter imparare tutto quello che desideri. La convalescenza potrebbe richiedere alcuni giorni, ma non si può dire che non te lo sia meritata.»
Marisela l'accompagnò in camera senza altri rimproveri e la fece distendere sul letto. Maia era lì a sminuzzare delle erbe per lo speziale: avrebbe potuto benissimo farlo nella serra o nel laboratorio annesso, ma si era accollata il compito della bambinaia per quando Aurora non poteva badare a Davin, perciò si portava il lavoro in camera. Quando le fu spiegata la situazione, lasciò il lavoro a metà per andare a prepararle un infuso calmante e portarglielo. Aurora restò sdraiata ad ascoltare il respiro del figlio, sperando che tornasse il prima possibile. In effetti, Maia ci mise pochissimo tempo ad arrivare.
«Sei la sorella migliore che potessi desiderare.»
«E tu sei la peggiore. Sei davvero una frana, Rora. Bevi questo e ringrazia gli Dei che ci sia io!»
«Grazie, anche io ti voglio bene.»
«Mmm... sei soltanto fortunata che mi fosse venuta voglia di una tisana. L'acqua era bollente e le erbe erano pronte.»
«Sei troppo gentile, avresti dovuto berla tu.»
«Non è che mi vada davvero, e poi è meglio che la prenda tu. Dopotutto, cosa me ne faccio di erbe calmanti quando ho tanto lavoro da fare? Davvero non so perché me la sono preparata... Come va la schiena?»
«Già meglio, per fortuna.»
«Allora, come ti è venuta in mente quest'idea geniale? Marisela ha detto di averti spiegato che non potevi riprendere subito l'allenamento.»
Improvvisamente, Aurora si sentì molto infantile: a chi sarebbe mai venuto in mente di contraddire la propria insegnante a causa delle emozioni provate in un sogno? Perciò si limitò ad alzare le spalle e dire: «Volevo imparare.»
«Lo spero bene, altrimenti ti saresti fatta male per niente. Mia madre lo diceva sempre, sai? Le figlie come me sono un tormento perché sai sempre che devi aspettarti che facciano qualcosa di strano. Ma quelle brave sono anche peggio, perché nessuno si aspetta che si comportino in maniera avventata.»
«Per favore, Sorella, risparmiami la ramanzina: Marisela me ne ha già dette tante, davanti a tutte le altre...»
«Allora te la risparmierò,» concesse Maia, «ma ad una condizione.» Aveva un'aria talmente seria, che ad Aurora venne da ridere.
«No, non soffocherò mio figlio nel sonno per non farlo piangere! Tu puoi cambiare stanza e andare a dormire con qualcuna che russa o con una coppia di innamorate che ti terrà sveglia per un altro motivo!» Le disse fra le risate. La schiena le faceva un po' meno male, anche grazie alla tisana che stava sorseggiando, e finalmente poteva scaricare un po' della tensione e della rabbia per aver fatto la figura della stupida.
«Ammetto che sarebbe una buona idea. Ma quello che voglio è che tu ti fidi di me. Oggi o domattina ti farai spiegare gli esercizi giusti per le puerpere, inizierai a farli ed andrai con calma, secondo il ritmo del tuo corpo. E poi aspetterai che io o Marisela ti diciamo quando crediamo che tu possa iniziare col coltello. E non ti avvicinerai alle rastrelliere delle armi nemmeno per metterle a posto. Giuralo.»
«Sul mio onore.» Rispose Aurora stancamente. Dopotutto, non aveva alternative.
«Brava ragazza. E adesso spera che Marisela diventi muta e che nessun'altra si sia accorta di niente, perché Gwennis non sarà per niente contenta.»
«Oh no! Non mi ci far pensare!» La Madre della Gilda era una persona tranquilla e gentile, ma non si risparmiava mai una ramanzina, se ce n'era bisogno. E l'ultima cosa che Aurora desiderava in quel momento era ricevere altre critiche per il suo comportamento. Davin, simpatizzando con la madre o, forse, soltanto perché aveva di nuovo fame, iniziò a piagnucolare.


barra

Quando si sentì meglio, Aurora si alzò dal letto per andare a dare una mano in cucina. Si era alla fine dell'inverno ed anche le piante della serra non producevano cibo a sufficienza per tutte: bisognava integrare con la cacciagione, i latticini e le conserve preparate durante l'autunno. Era appena entrata in cucina con il bambino in braccio, quando si sentì chiamare. Come Maia le aveva anticipato, si trattava di Gwennis, che chiese ad Aurora di raggiungerla nel suo studio. Un paio delle donne presenti in cucina le rivolsero uno sguardo preoccupato: d'inverno c'erano così poche possibilità di svagarsi che probabilmente la notizia della sua figuraccia doveva aver fatto il giro della Gilda almeno tre volte!
Tuttavia, Gwennis non si mostrò severa, almeno non subito. Quando Aurora fu davanti a lei, la Madre si chinò su Davin, che ricambiò il suo sguardo e le afferrò un dito.
«Vedo che cresce bene,» disse. «Forse è ancora un po' piccolo, ma tu non sei molto alta e probabilmente ha preso da te. Ha anche il tuo stesso naso.»
«Beh, mi sembra che mangi normalmente ed in modo regolare, e poi era già piccolo alla nascita.» Rispose Aurora, imbarazzata. Si era aspettata dei rimproveri, non una conversazione sui bambini. Ma anche l'altra donna aveva un bambino ed era stata lei a far nascere Davin, perciò era normale che fosse interessata.
«Siediti pure, immagino che la schiena ti faccia ancora male, soprattutto se tieni in braccio il piccolo.»
Aurora obbedì con un sorriso, ed entrambe si sedettero, l'una davanti all'altra. Con la schiena al caminetto acceso, sentì un piacevole calore sulla parte dolorante, e si rilassò.
«Non lo lasci mai da solo, vero?»
«Beh, se ho qualcosa da fare lo lascio ad una sorella, come è successo due o tre volte, ma in genere cerco di stare con lui quanto più è possibile. Sono la madre, è mia responsabilità...» Dal sorriso di Gwennis si rese conto che non era stata una vera domanda, quanto piuttosto una constatazione. Si ripeté per la seconda volta che anche la Madre della Gilda aveva un bambino: sicuramente sapeva bene cosa si provava, quel miscuglio di amore, senso di possesso e di responsabilità.
«So come ti senti,» le rispose infatti, «ed è comprensibile che tu voglia fare di tutto per garantirgli tutto quello che puoi. Anche una corniglia, se deve, lotta per difendere i suoi cuccioli. Ma gli esseri umani vivono in gruppi, ed in condizioni normali non è indispensabile che una madre lotti per difendere il figlio. Non prima di essere pronta, perlomeno. Soprattutto se ha molte Sorelle a coprirle le spalle.»
«Ma non voglio essere un peso per voi. Sono arrivata da quasi un anno e non sono ancora in grado di difendermi da sola, come dovrei e come ho giurato di fare.»
«E' lodevole da parte tua, Aurora, ma il Giuramento è fatto per adattarsi a tutte le donne in generale e a nessuna in particolare, e va rispettato con una certa elasticità, a volte. Oggi hai cercato di fare le cose di testa tua e, per quanto le intenzioni di base fossero buone, hai rischiato una bella slogatura. Questo avrebbe ritardato ulteriormente il tuo apprendistato. Ma so che Marisela te l'ha già detto.»
«Sì, infatti. E mi sono resa conto di aver sbagliato, puoi starne certa.» Rispose Aurora, tenendo gli occhi bassi su Davin, che giocava estasiato con le frange del suo scialle.
«Se vuoi diventare una brava spadaccina, devi sempre saper valutare le conseguenze delle tue azioni. Un comportamento scriteriato, in alcuni momenti, può fare danni molto peggiori del mal di schiena. E poi vorrei che ricordassi che tuo figlio dipende davvero da te. E non tanto per la protezione, che ti è assicurata da queste mura e da tutte noi, ma soprattutto per quello che soltanto tu puoi dargli.»


barra

Aurora si addormentò ripensando alla lunga giornata appena passata e alle parole di Gwennis.
Quello che solo lei poteva dare a Davin... la Madre della Gilda aveva voluto riferirsi all'amore materno, all'allattamento, all'accudimento, ma quello che continuava a tornarle in mente era ben altro. Il suo cuore desiderava la vendetta, per sé e per il futuro di suo figlio. Non voleva che lui fosse legato a quell'uomo, come lei lo sarebbe stata per sempre, nel ricordo. Desiderava saper combattere meglio di chiunque, desiderava far del male a Donal, desiderava il senso di potere che aveva provato nel sogno. Sapeva che avrebbe dovuto aspettare, per questo, ma non c'era fretta. L'importante era prepararsi per tempo.
E chi ha tempo non aspetti tempo, le diceva sempre sua madre.
Ed anche quella notte sognò di ucciderlo.


barra

Sembrava danzare, i coltelli nelle mani come gli ornamenti di una ballerina o un'acrobata, i piedi che scivolavano leggeri sul pavimento della stalla. L'uomo era in difficoltà, già ferito ad una coscia, pericolosamente vicino ai genitali, e si muoveva pesantemente. Aurora era molto più bassa di lui, ma più agile, sottile, sicura di sé. Ed aveva gli Dei dalla sua parte, ne era certa.
Anche stavolta lo uccise, lo vide dissanguarsi sul pavimento.
Ed un mantello scuro scese a coprirle le spalle. Stavolta Aurora si voltò, come una bambina che si gira per abbracciare la madre.
E Lei era alta, maestosa e luminosa. Il viso era indistinto, ma non poteva che essere una Dea. Indossava un diadema che pareva fatto di stelle, o forse delle pietre delle stelle dei Comyn.
Ma quasi subito si accorse che il viso non era indistinto: i lineamenti erano confusi, ma poteva riconoscervi diversi volti. Uno dei quali, con gli occhi castano-ambra e la cicatrice sulla guancia, era il suo. O forse tutti i volti erano una variante del suo? Per un momento le sembrò di riconoscersi più anziana, o si trattava di sua madre... ma un istante dopo, si rese conto che la Dea aveva i capelli rossi delle Comynare (o forse era il diadema lucente a farli apparire più chiari?).
«Sono l'inizio e sono la fine, figlia mia.»
Un corvo volò alto nel cielo, mandando il suo richiamo.


barra

«Avarra!» Si svegliò pronunciando il nome della Dea.
Maia era sveglia, a dire il vero appena tornata in camera dopo aver passato una piacevole serata in compagnia al Northern Scoundrel, e la prese per un'imprecazione.
«Ti ho svegliata, Aurora? Scusami, ho cercato di far piano...»
«Maia?» L'altra si rese conto della situazione, guardandosi intorno con un'occhiata. «No, è stato solo un sogno.» Si sedette sul letto, diede un'occhiata a Davin, che si era svegliato sentendo la voce della madre ma sembrava tranquillo, e gli fece una carezza. Il bimbo richiuse gli occhi ed iniziò a succhiarsi il pollice, riaddormentandosi dopo un attimo.
Nel frattempo, Maia si era infilata nel proprio letto.
Aurora si alzò e le si avvicinò.
«Posso?»
«Certo,» rispose Maia, soffocando uno sbadiglio. Quando erano piccole, Aurora e Bethia si infilavano nel suo letto, e Maia raccontava loro delle favole fino a che non si addormentavano insieme, abbracciate come cuccioli. A dire il vero, le sue favole erano sempre piene di mostri e fantasmi, per non citare banshee, catman impazziti e cavalieri sanguinari.
«Sei religiosa, sorella?»
La domanda la colse alla sprovvista. Le restavano tre ore di sonno o poco più prima di doversi svegliare per lavoro, aveva bevuto una discreta quantità di firi ed una discussione teologica era l'ultima cosa che si sarebbe aspettata.
«Cosa intendi?»
«Voglio dire... credi negli Dei?»
«Ma certo che ci credo, Rora. Perché?»
«Perché... credi che abbiano davvero un volto, che siano come li immaginano gli artisti e le canzoni e che possano interferire nella nostra vita?»
«Che domande... non lo so, penso che ognuno sia libero di immaginarli come vuole e che loro non se la prendano a male. Quanto a interferire, personalmente non mi è mai successo, o se è successo non me ne sono accorta, anche se una volta ho incontrato un giovanotto bello come Hastur. Ad ogni modo non lo escluderei. Ma cos'è successo? Mentre ero via è venuta Evanda a fare un saluto?»
«No... Avarra... credo.» Rispose Aurora con un fil di voce.
Maia batté le palpebre. Aurora l'aveva detto, o era stata lei a sognarlo?
«Avarra?» Ripeté, confusa.
«Non ne sono certa. E' che continuo a sognare... Oh, povera sorellina, sei stanca morta, vero?»
«Beh, non mi dispiacerebbe fare un pisolino, anche perché devo svegliarmi all'alba. Magari potremmo parlarne domani, che ne pensi?»
«Shh, fai la nanna, ti sveglierò io.»
In qualsiasi altro momento, Maia le avrebbe replicato che lei non faceva la nanna ma dormiva, ma ebbe solo il tempo di appoggiare la testa sul cuscino e si addormentò di botto.


barra

L'indomani, prima che potesse parlare con Maia, Aurora ricevette una visita da Fiora. Fu la stessa Idriel, nipote di Fiora, ad informarla della cosa.
Una volta scesa al pian terreno, Aurora trovò la donna nella sala delle visite, seduta su una panca, intenta a ricamare qualcosa alla luce che entrava dalla finestra. La donna era già stata a trovarla il giorno dopo il parto, e le era stato permesso di entrare nella casa della Gilda, dal momento che si trattava di una donna. Aurora l'aveva accolta nella sua stanza da letto, ed aveva ricevuto decine di complimenti per il bambino ed un bavaglino ricamato. Era tornata a farle una visita più di una decade prima, ma poi non si erano riviste.
«Buongiorno, Fiora!» La salutò allegramente. Era contenta di rivederla: ultimamente le era mancato il lavoro, anche se non sarebbe certo stata in grado di sedere al tornio e badare ai forni nel suo stato di gravidanza avanzata, e le faceva piacere incontrare qualcuno che glielo ricordasse. Fiora aveva fra i capelli il profumo dell'argilla e dei colori per decorarla, e non mancava mai di raccontarle le ultime novità della bottega di Jacqual.
L'anziana donna fece per alzarsi in piedi, ma la ragazza la bloccò con un gesto. «Stai pure comoda: vengo a sedermi io accanto a te.» Le diede un bacio sulla guancia. «Come stai?»
«Io sto bene, chiya, ma tu? Ho sentito della tua schiena...»
Bene: la sua figuraccia non solo aveva fatto il giro della Gilda, ma anche quello del paese. Beh, non poteva dire di non esserselo meritato.
«Sto bene, grazie. È stata solo un'imprudenza, e stamattina va molto meglio.»
«E cosa mi dici del piccolo Davin?» Aurora l'aveva portato con sé e la donna si chinò su di lei per guardarlo e fargli qualche carezza. «Mi sembra che stia crescendo bene.»
«Sì, ed è un bambino molto bravo: non piange quasi mai.»
«Bambini così sono una benedizione della Dea. Ma avrà tutta la vita per scatenarsi: aspetta solo che inizi a mettere i dentini!»
«Vuol dire che ho almeno un altro mezzo anno di tranquillità davanti a me! È più di quanto avessi sperato.»
«Sei felice, ora che puoi stringerlo fra le braccia?» Gli occhi della donna brillavano, quasi di commozione. Anche lei era una madre e poteva capire le sensazioni che Aurora provava. Era incredibile il modo in cui, da quando aveva scoperto di essere incinta, le sembrava di poter condividere le esperienze ed i pensieri con le altre madri, quasi che fossero una razza di donne a parte.
«Sì, Fiora, è una cosa che non avrei mai immaginato di poter provare.» Fu sul punto di aggiungere : "se solo suo padre non esistesse", ma si trattenne. Non le sembrava che la donna fosse la persona più adatta con cui parlarne. Tuttavia, ella conosceva Aurora e la sua storia (almeno in parte) e forse lesse qualcosa nei suoi occhi.
«Spero che la gioia per aver avuto questo figlio ti faccia finalmente superare quello che ti è successo.»
Aurora si stupì per queste parole: come aveva fatto a capire quello a cui stava pensando? I suoi sentimenti erano così leggibili sul suo viso? O forse era semplicemente perché conosceva il suo stato d'animo, sapeva come ci si doveva sentire perché anche sua figlia aveva vissuto una simile esperienza? Però lei non aveva superato la cosa, si disse. Anzi, il suo parto ed i sentimenti verso il figlio, lungi dall'allontanare le emozioni delle esperienze passate, le avevano risvegliate e rafforzate, ed ella si sentiva frustrata.
«Non è una cosa che io possa fare, Fiora.» Le disse. «Non posso dimenticare quello che è stato, soprattutto ora che ho mio figlio a ricordarmelo.»
«Com'è possibile? Eppure, tu ami tuo figlio!» Rispose stupita la donna.
«Sì, ovviamente. Ma lo amo perché è figlio mio, non certo per suo padre.»
«Ne sono certa, chiya, ma vuoi dire che questo non ti basta?»
Bastarle? Come poteva bastarle? Come, quando sapeva che, se Donal avesse scoperto che lei aveva avuto un figlio, avrebbe cercato di rivendicarlo come suo? Come, quando sapeva che l'uomo che aveva cancellato in un momento tutto il suo passato era ancora vivo?
«No, non mi basta. Ho un figlio ma, a parte questo, non sono cambiata.»
Fiora scosse la testa sconsolata, sospirando, come davanti ad una bambina che non vuole imparare la lezione. Non capiva il suo punto di vista.
«Ma adesso sei una madre.»
«Sì, adesso sono una madre.» Ripeté Aurora. Poteva capire la donna, ma non accettare il suo punto di vista come proprio. Fiora credeva forse che la maternità avrebbe cancellato tutto, per lei? Che una gioia potesse annullare un dolore nel modo in cui la sabbia asciugava l'umidità? «Ma, a parte questo,» ripeté ancora «non cambia niente per me.»
La donna rimase in silenzio per un attimo, poi le disse: «Bene, forse è ancora presto per te. Ma pensa che hai una nuova vita davanti a te. Una vita come madre. E tu sei nata per questo.»
«Nata per essere madre? Io?» Aurora scosse la testa, sorridendo. No, non credeva davvero di essere nata per essere madre. Certo, aveva sempre saputo che prima o poi avrebbe potuto avere dei figli, ma non si era mai immaginata in quel ruolo. Quando Donal l'aveva violentata, era felice di stare in casa e nel negozio di suo padre, e non le erano mai interessati i ragazzi. Era decisamente più portata per il lavoro. Ora era contenta, ma questo non significava certo che avere dei figli era lo scopo della sua vita.
«Ma certo, chiya, altrimenti gli Dei ti avrebbero fatta nascere uomo!» La risposta suonò come un'ovvietà. «Per carità, hai deciso di essere una Rinunciataria e sai bene che io non ci trovo niente di male, ma rimani una donna, e le donne sono fatte per avere bambini. Certo, forse per la tua vita saresti stata più felice di avere una femminuccia...»
«Beh, forse sì, ma non conta. Amo Davin più di me stessa. Ma non sono certa di essere nata per essere madre. Me la cavo senza dubbio meglio in altre cose!»
«Posso dirti senza temere di sbagliarmi che questo bambino è molto più bello del tuo miglior vaso decorato! Ma te ne renderai conto col passar del tempo. Capirai quello che intendo quando Davin crescerà e ne avrai degli altri.»
«Sì, forse hai ragione. Ad ogni modo non sono sicura che potrei essere felice soltanto di avere dei figli. Le donne possono avere dei bambini ma questo non vuol dire che possano essere felici solo avendone.»
Dentro di sé, ricordò il passo del Giuramento che diceva: "non partorirò figli a un uomo se non per mio piacere e al momento da me scelto; non partorirò figli a nessun uomo per la casa o l'eredità o il clan o l'orgoglio o la posterità."
La donna alzò le spalle. «Le donne sono fatte per avere bambini, Aurora: hanno il seno e il grembo. Se non fossimo fatte per questo, saremmo uomini. Secondo me le cose stanno così.»
Continuarono a chiacchierare del più e del meno per un po', poi Fiora la salutò ed andò a fare alcune commissioni per il marito. Ma, durante tutta la conversazione, Aurora continuò ad interrogarsi su quello che la donna le aveva detto: dal momento che le donne partorivano, dovevano forse sentirsi realizzate soltanto dalla e nella maternità?
Lei non pensava che fosse così: era felice e soddisfatta del proprio lavoro e delle proprie capacità, e non soltanto come mezzo per mantenere Davin. Restare incinta, partorire, allattare, le sembravano solo delle funzioni del proprio corpo, funzioni che la riempivano di gioia, ma in fondo non troppo diverse da digerire e parlare. Erano normali per tutte le donne, e non se ne sentiva certo fiera. Non c'era bisogno di imparare a partorire, mentre lei aveva impiegato alcuni anni a padroneggiare le tecniche della produzione di vasellame, e di questo era orgogliosa.
E poi, seguendo fino in fondo il ragionamento di Fiora, gli uomini avrebbero forse dovuto accontentarsi di fecondare le donne, perché erano in grado di farlo? ed allora il lavoro di chi avrebbe mantenuto i figli che nascevano?
"Forse quello delle persone sterili!", si rispose con un sorriso, dopo aver salutato la donna che era venuta a trovarla.
Ad ogni modo, si disse, la maternità le dava un'ottima scusa per non uscire troppo al freddo, sotto la neve. Le sembrava di essersi impigrita, di cercare sempre il caldo. Decise di andare a dare una mano in cucina, in modo da approfittare del calore del forno.
La giornata trascorse in modo tranquillo, e così le successive. La schiena guarì, Aurora non sognò più, e non ebbe l'occasione di parlare approfonditamente con Maia. Meglio così, si disse: si era solo lasciata suggestionare da alcuni sogni, dalla nascita di Davin, dai ricordi. Adesso si vergognava di sé: lasciarsi trasportare fino a quel punto non era da lei. Covare simili desideri di vendetta, dopo tanti mesi nei quali era venuta a patti col proprio passato, trasformarsi - sia pure in sogno - in una sanguinaria assetata di battaglie, invocare gli Dei come giustificazione... non sarebbe forse stato meglio lasciar perdere questi desideri irrealizzabili e dedicarsi alla propria vita, quella vera, alla Gilda di Elvas?
Tuttavia, restava convinta che Donal dovesse in qualche modo pagare per quello che le aveva fatto. Di tanto in tanto le tornavano alla mente le parole di Liane: le vendette delle Rinunciatarie, che erano così famose nelle storie...
Non avrebbe voluto che tutta la Gilda si mettesse contro Donal, certo. Avrebbe dovuto essere la sua vendetta privata. E forse, un giorno, quando Davin fosse stato più grande e lei più brava con le armi...
Immersa in questi pensieri, cullava il bambino fra le braccia, su una sedia a dondolo, davanti al camino della sala del cucito, per il momento vuota. Aveva rammendato alcuni panni di Davin, l'aveva allattato ed ora si riposava guardando le fiamme. Il movimento della sedia la fece scivolare nel dormiveglia.


barra

Ancora sangue. Poteva sentirne l'odore, mescolato a quello del suo latte, l'odore di Davin. Ed il pavimento della stalla, l'odore della terra battuta, della polvere, del cavallo. E l'odore del sangue su tutti gli altri.
Il sapore della polvere e del metallo. Il sapore metallico del sangue fra i suoi denti.
L'immagine era confusa. Un uomo ferito, il suo corpo contorto per terra, parole sibilate fra i denti. Divenne un volto, un teschio, di nuovo un volto incorniciato da un cappuccio scuro. Le parole sussurrate con una voce antica e spaventosa erano le sue.

«Sono la fine e sono l'inizio e siete tutti miei figli.»
«Se lo siamo tutti,» le chiese, «perché hai permesso che succedesse?»
Ma la Dea non rispose. Gli occhi infossati, scuri come pozzi, la fissarono fino a quando Aurora non si rese conto di fissare il proprio volto riflesso come nell'acqua. L'immagine si scompose di nuovo, le sembrò di sentirle ripetere, «la fine e l'inizio.»
Poi si accorse che ciò che stava guardando erano solo le fiamme del camino.
«Parlavi con me?» Le chiese Vivienne, infilando la testa nella stanza. «Mi è sembrato di sentirti parlare mentre passavo davanti alla porta.»
Aurora batté le palpebre.
«No, Sorella... mi ero appisolata, forse parlavo nel sonno! Cosa stavo dicendo?»
«Non lo so, non sono riuscita a capire le parole. Era un bel sogno?»
«Non tanto,» le rispose, arricciando il naso al ricordo degli odori e dei sapori che aveva sentito. Vivienne sorrise e si allontanò, per sbrigare le sue faccende.
«È ora che torni al lavoro,» disse Aurora, stavolta a se stessa.









barra









Disclaimers

Il rientro nella vita normale sembra difficile per Aurora, gravata anche dal peso dei ricordi.

torna all'inizio







The Elvas Project © 1999 - 2008
© SDE Creations
Ultimo aggiornamento: 31/12/2008