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[torna a Racconti] [E.S.T. dE +2, maggio (20)] [Credits & Disclaimers]



Alberi e luce

Emyn Dunlee

Sono giorni che una strana agitazione serpeggia lungo le gallerie sotterranee delle miniere. Ogni rappresentate del Popolo delle Forge sembra in preda ad una strana frenesia, difficilmente spiegabile a chi non li conosce a fondo. Uno dei figli del nobile che abita nel castello costruito sulla cima della montagna che nasconde la nostra parte di miniere è sceso a porgere i suoi omaggi al massimo rappresentate della nostra comunità. Ci chiede un grosso favore e per questo ci ha portato ogni sorta di dono che, a suo parere, saranno in grado di aiutarci a prendere la giusta decisione.
Il nostro capo si è mostrato dubbioso, con buoni motivi. Si tramandano ancora i racconti di quello che il Popolo ha dovuto subire quando, nei secoli passati, si rifiutava di accondiscendere alle gentili richieste dei nobili che popolavano la regione.
Più volte i villaggi sono stati abbandonati, nel timore di vendette nei nostri confronti. Le nostre forge distrutte, gli altari devastati, donne e bambini costretti a rifugiarsi nei cunicoli delle miniere in cerca di un rifugio che, anno dopo anno, diventava il solo luogo che potevano chiamare casa. Al momento il nostro villaggio è al sicuro, da anni nessuno minaccia il nostro Popolo ma, ad ogni richiesta che ci viene fatta, il timore di un nuovo esilio nei sotterranei ci assale. I racconti che allietano le serate attorno ai fuochi, stralci di memoria comune che servono a mantenere vivo il ricordo del nostro passato, narrano delle follie dei comyn e delle loro ripetute sconfitte... sconfitte che non li hanno mai fatto desistere dal compiere atti sempre più assurdi.
Questa è una follia che io posso ancora comprendere ma che non posso spiegare al Popolo che mi ha accolto come un figlio.
Sono trascorsi più di dieci anni da quando sono entrato nelle viscere della montagna per vivere con loro. Ora sono stato completamente accettato ma, durante i primi anni, venivo guardato con sospetto e sopportato solo per l'evidente abilità che mostravo nel trattare i metalli e le loro preziose pietre. A quei tempi mi fu permesso di entrare nelle miniere unicamente perché conoscevano già il mio nome e la mia affidabilità.
Solo ora, dopo aver vissuto a stretto contatto con loro ed averne condiviso i ricordi, posso capire la loro preoccupazione nei confronti di quella che era la mia razza, anche se sono ancora in grado di comprendere la tenacia e la sete di novità che porta il popolo dei comyn a ripetere sempre gli stessi errori, scordandone gli effetti negativi con il trascorrere dei secoli.
Loro non hanno una memoria comune che li sostiene, che ricorda loro i fatti positivi e, soprattutto, quelli negativi che sono accaduti alle generazioni precedenti.
Il Popolo delle Forge ricorda tutto. Gli errori e le vittorie ma, soprattutto, gli errori dei comyn che hanno portato dolori e grandi perdite anche tra di noi.
Ora che il figlio dei comyn è sceso nelle viscere della montagna per chiedere in dono una parte delle pietre delle stelle che ancora sono nascoste nel ventre della madre che le ha generate, un brivido di apprensione scorre nelle vene di ogni rappresentante del Popolo.
Al nostro capo ha detto che le pietre servono ad altri comyn, sono necessarie perché essi riescano ad accrescere e stabilizzare i poteri che caratterizzano la loro casta. Andranno portate nella valle distrutta a sud delle montagne... una valle legata ad un altro frammento di storia che ha colpito tragicamente anche il Popolo. Al principio il capo non voleva cedere, sostenuto anche dalla voce degli anziani del villaggio, poi, non grazie all'insistenza del nobile, ha deciso che il dono poteva essere fatto, a patto che qualcuno di noi vegliasse sul suo utilizzo. La richiesta ha colto tutti di sorpresa. Nessuno avrebbe mai accettato di lasciare il villaggio e la montagna, per scendere fino alla valle a sud degli Hellers, lontano da tutti, soli in mezzo al popolo dei comyn.
Il nobile, che aveva sperato in una rapida e felice risoluzione dell'accordo, è restato molto male nell'ascoltare quale era la richiesta e, con la coda tra le gambe, è tornato in superficie. Tornerà, ne siamo certi. Con quali intenti non riusciamo però a prevederlo.
Sua sorella, la donna che gli anziani del Popolo trattano con ancor più deferenza del capo della comunità, è restata con gli anziani. Dopo aver affermato che nessuno poteva costringerci a concedere qualcosa contro il nostro volere, ha lasciato che il fratello la lasciasse indietro. Sicuramente sperava nel suo appoggio e, se lei si fosse mostrata positiva alla cosa, anche il Popolo si sarebbe comportato di conseguenza e le sue parole hanno irritato il giovane comyn ma, dopo tutto, non è lei a dover decidere. Il fatto che sia una Rinunciataria non significa nulla per noi e, agli occhi del nobile fratello, pur essendo un uomo di vedute più liberarli di altri, resta pur sempre una donna.
Quel giorno non si è trattenuta a lungo, forse per non obbligare il capo e gli anziani a prendere decisioni troppo affettate. Ha gironzolato un po' per i corridoi sotterranei, parlando con Asa, mio figlio, e con altri giovani della sua età poi, senza sbilanciarsi sulla decisione presa dal nostro capo, è tornata verso la superficie, passando attraverso i piani abbandonati del vecchio castello, come suo solito.
Non è la sola a conoscere quei labirinti, anche se sono abbandonati da secoli, vi restano ancora le tracce della presenza dei comyn e molti del Popolo li evitano. Negli ultimi anni solo io li frequentavo, anche se sembrano trascorsi secoli dall'ultima volta che vi sono salito. Avevo quindici anni appena compiuti quando ho abbandonato la mia famiglia e mi sono inoltrato nelle viscere della montagna, seguendo gli stessi sentieri che mio padre percorreva quando voleva proporre al Popolo delle Forge qualche scambio.
La nostra è stata sempre una famiglia di intagliatori e di fabbri. La vicinanza della nostra casa con uno dei villaggi del Popolo ha sempre favorito il nostro lavoro. In cambio di cibo fresco e di altri beni, per noi di scarso valore, loro ci hanno sempre donato pietre e metallo per le nostre realizzazioni.
L'abilità di mio padre è rinomata nella valle e anche vari Dom Aldaran si sono rivolti a lui per realizzare gioielli da regalare a mogli ed amanti. Abbiamo anche un negozio, a Caer Donn, gestito da mia zia e dal marito. Lei è la sorella di mia madre e, tra loro e i rispettivi mariti, vi è sempre stata un'intesa che superava il peso dei legami famigliari. Per i primi anni dell'adolescenza ho spesso dubitato della vera identità dei miei genitori ma, visto l'affiatamento delle due coppie e l'assoluta uguaglianza con cui hanno sempre trattato figli e nipoti, la cosa ha presto smesso di preoccuparmi.
L'amore per il lavoro della nostra famiglia, tramandato da padre in figlio, mi ha presto fatto desiderare di apprendere di più. Non mi bastava più la conoscenza che mio padre poteva tramandarmi. Volevo essere in grado di creare quei capolavori che avevo potuto ammirare all'interno delle stanze più nascoste del Popolo delle Forge, oggetti che a pochi uomini era stato concesso di vedere.
Così, al compimento del mio quindicesimo anno di età, svincolato definitivamente dalla tutela dei miei genitori, ho detto addio a tutti e sono sceso nelle viscere della montagna dove, nonostante tutto, sono stato accolto meglio di quanto avessi mai potuto prevedere.
Sapevano il genere di lavoro che ero in grado di eseguire e, dopo poco tempo, venni affiancato ad alcuni dei loro artisti. Tutti i ragazzi che erano con me avevano la metà dei miei anni ma, grazie alla mia maggior resistenza fisica, riuscì ben presto a superarli nella realizzazione di piccoli capolavori.
Solo una cosa non riuscivo a comprendere. Alcune delle opere, per quanto semplici e all'apparenza facili da realizzare, erano completamente al di fuori delle mie capacità. Gioielli dalla fattura così elegante che sembravano essere stati creati seguendo la volontà delle pietre che erano servite per decorarli.
Sembrava che il Popolo delle Forge realizzasse ogni oggetto non in funzione al suo utilizzo ma in base ai desideri della pietra che lo adornava e, in effetti, era proprio quello che accadeva ma io, ancora sordo alla volontà delle pietre, non lo potevo neppure concepire.
Solo dopo un anno, quando gli anziani del Popolo furono certi della mia fedeltà nei loro confronti, mi venne concesso di partecipare ai loro riti: l'adorazione di Sharra, la grande matrice che conteneva e faceva da tramite in questo mondi alla divinità da loro venerata.
Io sono stato cresciuto nell'idea che Sharra e Zandru fossero presenze negative, in contrapposizione alle grandi divinità che avevano contribuito alla nascita dei comyn e di tutti gli abitanti di Darkover. L'adorazione di questa donna, incatenata da Aldones agli inizi dei tempi per contenerne il potere malefico, non poteva portare certo a nulla di buono. Naturalmente stavo bene attento a non rivelare i miei pensieri ma, mentre assistevo alle loro cerimonie e osservavo alcuni dei sacerdoti o dei fedeli cadere nello stato di trance che permetteva loro di scorgere oltre il velo delle dimensioni, nulla sembrava accadere.
Sharra continuava a non manifestarsi o almeno così credevo.
Fu durante un matrimonio, una cerimonia che vide coinvolti non solo i membri del mio villaggio ma anche quelli di altri villaggi lontani, che cominciai a scorgere qualcosa. Una sorta di fantasma che si stagliava al centro della congrega. Un raggio luminescente che con il trascorrere dei minuti diventava sempre più simile ad una fiamma poi, quando i canti raggiunsero il culmine, una splendida donna dai capelli di fiamma, incatenata a qualcosa che sfuggiva alla mia vista, comparve davanti ai miei occhi e mi parlò. Non saprei dire quanto tempo trascorse prima che quella apparizione svanisse nel nulla, riassorbita dalla pietra da cui era stata generata. La cosa certa è che, da quel momento, la sua presenza è costante al mio fianco.
Potevo scorgere la sua potenza in ogni pietra che toccavo, sentire le correnti di energia che attraversavano le gemme e, tramite il dono concessomi dalla Dea, realizzare quei capolavori che fino ad allora avevo solamente invidiato. Durante una delle rare visite fatte alla mia famiglia naturale feci il secondo incontro che cambiò la mia vita. Avevo sentito parlare dei chieri fin da quando ero un bambino ma, come molte altre cose che mi venivano raccontate, pensai si trattasse di leggende. Invece, nel folto del bosco, incontrai la creatura più bella che avessi mai potuto desiderare.
Hisie era alta, lunghi capelli del colore della neve le scendevano lungo la schiena, raccolti in una morbida treccia. Gli occhi che si fissarono nei miei erano del colore del miele e la sua voce era paragonabile a quella della Dea, suadente e decisa, promessa di mille desideri.
Non era sola e con i suoi compagni chieri continuò per la sua strada, voltandosi più di una volta a guardarmi, io che ero rimasto immobile in mezzo al sentiero a seguirla con lo sguardo, fino a quando non svanì nel folto della foresta. Credetti che non l'avrei più rivista, che sarebbe stato più facile evocare Sharra nel centro del mercato di Caer Donn piuttosto che incontrarla per una seconda volta... invece fu lei a venirmi a cercare.
Non fu un'impresa difficile. La razza dei chieri è molto più stimata dal Popolo che quella dei comyn, nati dalla stessa madre. Io, a dispetto del Popolo delle Forge, ero più facilmente individuabile e presto la voce dei miei incontri con la bella donna dai capelli di neve diventò fonte di nuovi racconti per i vecchi del mio villaggio.
Passarono quattro anni quando avvenne un cambiamento che avrebbe potuto far finire la nostra storia. Quell'inverno era stato più duro degli altri, il tempo talmente crudele da spingere gli abitanti del mio villaggio a trasferirsi nelle caverne per ripararsi dal freddo e dalla neve. Le condizioni avverse avevano colpito duramente anche il gruppo di Hisie e molti dei loro maschi erano morti nel tentativo di procurare cibo e protezione ai più deboli.
La cosa era normale tra di loro. Non c'era nulla di strano che un chieri cambiasse il proprio sesso in base alle necessità del suo gruppo. Il difficile fu riconoscere la mia Hisie in quel splendido chieri maschio che si presentò a me all'arrivo della primavera.
Ma bastò poco per ritrovare in quel corpo estraneo l'anima della donna che mi aveva stregato e, anche se con qualche timore, la nostra relazione continuò, più salda di prima. Quando, tre anni più tardi, mi portarono la notizia della sua morte sentì il mondo crollarmi addosso.
I due chieri si erano spinti fino al centro delle gallerie, dove avevo il mio laboratorio, ritenevano doveroso per loro raccontarmi della sua morte perché, anche se non appartenevo alla loro razza, ero riuscito a rendere felice uno dei loro compagni. Una felicità che sarebbe durata anche oltre la morte del suo corpo fisico.
Non compresi le loro parole. Il solo pensiero di aver perso Hisie per sempre mi lasciò in uno stato di prostrazione tale da togliermi persino la voglia di lavorare.
Fu Sharra a riportarmi alla vita, apparendomi durante una delle solite cerimonie e curando il mio cuore ferito, facendomi comprendere l'inutilità del mio comportamento, rivelandomi che presto la mia via sarebbe cambiata di nuovo.
Pochi giorni dopo una piccola delegazione di chieri chiese la mia presenza all'esterno del villaggio. Con loro avevano un piccolo dall'aria spaurita che, attraverso grandi occhi color miele, mi guardava con apprensione. Il suo nome era Asa e, mi dissero, era nato dalla mia relazione con Hisie.
Il ragazzino, che dimostrava poco più di sette anni umani, aveva la struttura slanciata e leggera dei chieri, gli occhi dello stesso colore ambrato di molti della loro razza e la sola cosa che lo poteva distinguere come un mezzosangue era la folta capigliatura corvina, che contrastava nettamente in mezzo agli altri dai capelli chiarissimi, quasi incolori.
Alla presentazione seguirono alcuni minuti di silenzio imbarazzato. Tutti i presenti erano consapevoli che era impossibile che quel fanciullo potesse essere mio figlio ma, evidentemente, i problemi che la sua permanenza tra i chieri poteva creare superavano l'imbarazzo della menzogna appena raccontata.
Asa mi fissava con occhi preoccupati. Se avessi rifiutato di prenderlo con me avrebbe continuato a vivere una mezza esistenza. Non che le cose potessero migliorare tra gli umani ma, con accanto qualcuno che era in grado di accettarlo per come era, poteva riuscire a crescere e maturare fino a raggiungere una sua indipendenza.
«D'accordo,» risposi semplicemente alla fine, allungando una mano fino ad incontrare quella esile e tremante di mio figlio. Il gruppo di chieri mi ringraziò, tutti evidentemente sollevati dalla mia decisione, e si allontanò in silenzio. Asa restò a guardarli svanire tra gli alberi millenari di quel bosco, triste per l'abbandono. Il viso era calmo e tranquillo quando si rivolse a me, nonostante la nota di smarrimento che risuonava nella sua voce.
«Io non voglio mentirti,» mi disse, gli occhi immensi e dal colore improbabile per un umano fissi nei miei. «Non sono tuo figlio...»
«Da questo momento sì,» gli risposi, stringendolo a me e conducendolo verso la sua nuova casa.
Non riparlammo più delle sue origini per lungo tempo. Asa si era presto adattato alla nuova vita, condotta a cavallo tra il villaggio e le profondità delle miniere. Sempre più spesso, però, i lavori che mi venivano richiesti mi costringevano a trascorrere sempre più tempo nelle gallerie illuminate dalle torce. Lui non si lamentava ma, giorno dopo giorno, diventava sempre più taciturno e scontroso.
Solo dopo la visita del figlio del comyn mi resi conto di quanto le sue condizioni avessero preoccupato anche gli altri del Popolo. Per loro Asa era mio figlio, nessuno aveva messo in dubbio la cosa e, vederlo così provato, li rendeva tristi quasi quanto me.
Il vecchio capo e gli anziani mi convocarono sul finire della giornata. Erano trascorsi quasi sette giorni dalla visita del comyn e, presto, l'uomo sarebbe tornato per informarsi sulla nostra decisione e per rispondere alle nostre richieste.
«Emyn,» la voce del capo era bassa e preoccupata. Il piccolo altare alle sue spalle era adornato da una grossa matrice, non la vera Sharra ma una pietra dalle dimensioni altrettanto considerevoli. La luce azzurrina che emetteva si irradiava attorno a lui, conferendogli un'aura quasi spettrale.
«Sappiamo che è stata una tua decisione quella di venire tra di noi e, dopo così tanti anni, la tua presenza nella nostra famiglia si è fatta quasi insostituibile,» il vecchio fece una pausa, mentre gli altri anziani del gruppo annuivano con serietà alla sua affermazione. «Però è necessario che qualcuno di noi segua le pietre che doneremo al rappresentante dei comyn e vegli sul loro utilizzo. Quel luogo è stato macchiato da vicende terribili, un incubo che si e trascinato fino a pochi decenni fa, e noi non vogliamo che la tragedia possa ripetersi.»
In realtà non avrebbero dovuto aggiungere altro. Il solo fatto di non essere nato tra di loro mi rendeva il più idoneo alla missione che volevano farmi intraprendere. Ma sapevo che la loro decisione non era solo dovuta a questo sapevo quanto erano preoccupati per la salute di mio figlio e di certo la loro decisione era un modo per liberarlo da quella vita per lui innaturale.
«Vi sono grato della fiducia che riponete nelle mie capacità,» risposi, prima che potessero aggiungere altro. «Spero che quello che mi avete insegnato in questi anni sia sufficiente per non deludervi.»
Gli anziani non replicarono. Non vi era la necessità di aggiungere altro. Ci salutammo come se la mia partenza fosse prevista per l'indomani e, in silenzio, tornai nel mio alloggio per raccogliere le mie poche cose.
I tre giorni che precedettero la nostra partenza furono carichi di eccitazione. Asa continuava a correre ovunque, salutando gli amici e raccogliendo una marea di cianfrusaglie che gli avrebbero ricordato quei luoghi. Per contro, ogni rappresentante del villaggio venne in pellegrinaggio nella mia misera abitazione portando ognuno un piccolo dono, un ricordo che non ci avrebbe fatto sentire la lontananza dalla nostra casa.
Quando, finalmente, arrivò il giorno della partenza, l'euforia di Asa si trasformò in panico.
«Koi,» ogni minuto che passava controllava la mia posizione, nel timore di essere abbandonato. «Verranno loro a prenderci?»
«Sì, Asa,» era ormai la centesima volta che rispondevo alla stessa domanda, ma sapevo benissimo che, trascorsi altri cinque minuti, essa sarebbe stata ripetuta.
L'arrivo della carovana che avrebbe scortato le matrici fino alla valle di Elvas pose finalmente termine al supplizio.
Nascosto dietro di me, Asa guardava con evidente preoccupazione il gruppo di uomini che prese in consegna le pietre. Il capo dei mercenari parlò brevemente con il capo e, in maniera ancora più fredda e sbrigativa, con il figlio del comyn. Si avvertiva una sorta di tensione tra di loro, dovuta a un qualcosa che però non sembrava collegato alla missione che dovevano compiere.
Solo l'arrivo di Taksya, la sorella Rinunciataria del comyn, interruppe la disputa. Lei, altre due Amazzoni della Gilda di Caer Donn e il Nobile Domenic Aillard sarebbero stati gli altri membri della spedizione.
La presenza di così tanti elementi nella squadra non sembrava essere molto gradita ai mercenari ma, con una scrollata di spalle, dopo pochi controlli venne dato il via alla carovana. Il carro ricolmo di pietre matrici, stivate in bassi forzieri foderati in seta grezza, fu situato in mezzo al gruppo e, in pochi minuti, l'intero squadrone era in marcia.
Asa ed io eravamo stati messi alla guida del carro. La nostra presenza era quella che si sarebbe rivelata più inutile in caso di un attacco e, assieme al carico, avremmo rappresentato un bottino prezioso.
«Koi, quanto impiegheremo che raggiungere la valle?» Asa avrebbe voluto chiederlo al capo della carovana, ma l'espressione cupa sul suo volto non invitava di certo alla conversazione.
«Temo non meno di sette giorni, chiyu,» sospirai. Sentivo già la mancanza del villaggio e delle caverne sotterranee. Solo la presenza di Asa mi impediva di tornare sui miei passi e chiedere che qualcun altro prendesse il mio posto.
Asa sorrise maliziosamente, mostrando improvvisamente molti più anni di quanti sembrava averne in realtà.
«Io credo molti meno, koi,» ribatté, sdraiandosi sul sedile del carro e posando la testa sulle mie gambe. I capelli, che riuscivano a stento ad essere trattenuti dalla treccia che tentava di imbrigliarli, ricadevano mollemente sulle sue spalle. «Vedi quello alto, dai capelli rossi come un comyn?» L'uomo in questione stava cavalcando sul alto destro del carro, discutendo scherzosamente con un altro dei mercenari riguardo i soldi persi in chissà quali scommesse fatte durante l'inverno appena trascorso. «Lui non vede l'ora di arrivare al villaggio per rivedere il suo amante,» il tono sommesso di Asa non poteva essere udito dagli altri ma mi ritrovai a sbirciare il mercenario temendo una reazione. «Anche la donna a capo del gruppo ha qualcuno che l'aspetta la villaggio, ma sente meno la lontananza perché è in contatto con lei telepaticamente, nonostante siano molto distanti.»
«Una donna?» sentì Asa ridacchiare sommessamente, nascondendo il volto tra le pieghe dei miei abiti.
«Sì, koi, ma nessuno degli altri si è accorto della cosa... forse solo Taksya, ma per lei non fa differenza. Per lei anche noi non siamo un problema...»
Non riuscii a trattenere un sospiro, mentre con una mano tiravo la treccia di mio figlio per riportarlo ad un comportamento più decoroso.
«Non c'è nulla tra di noi che potrebbe creare scandalo,» gli ricordai. «Se non la tua lingua un po' troppo tagliente!»
Asa ridacchiò di nuovo, questa volta attirando l'attenzione della donna a capo del gruppo.
I due si fissarono per un lungo istante, mentre lei rallentava l'andatura del cavallo per affiancarsi al carro, segnalando con un cenno del capo al suo compagno più anziano di portarsi in testa alla carovana.
La particolarità della fisionomia della mercenaria era evidente sia ai miei occhi che a quelli di Asa. Anche lei doveva essere un mezzosangue, ma non era quello dei chieri che scorreva mischiato a quello umano nelle sue vene.
«Come si chiama vostro figlio?»
«Asa,» rispose lui direttamente. «E voi?»
«Illa. Quanti anni hai?»
«Quasi otto!» C'era una nota di orgoglio nella voce di Asa, nel riferire il numero di anni che avrebbe festeggiato al prossimo compleanno.
Una luce strana brillò nello sguardo della donna, le iridi talmente chiare da sembrare quasi rosate, per effetto della luce. «Sto parlando della tua vera età, non degli anni umani che sembri dimostrare.»
Asa arrossì violentemente, rizzandosi a sedere di scatto e stringendosi a me come per cercare protezione. «Io ho solo sette anni, mestra,» il tono della sua voce contrastava nettamente con quello che cercava di dimostrare. «Mia madre era una chieri, per quello sono... così...»
Tua si strinse nelle spalle. «Il tuo sangue chieri è evidente, piccolo,» commentò la donna, «molto più di quello del Popolo Gatto che mi ha lasciato l'essere che ha violentato mia madre.» Il tono della voce era tenuto molto basso, per gli altri della carovana la nostra era solo una tranquilla chiacchierata. «Il vostro arrivo desterà molto interesse a Elvas.»
«Avete già avvisato la vostra compagna?» chiese Asa a bruciapelo, ma senza ottenere la reazione cercata.
«No,» rispose tranquillamente Illa. «Sono curiosa di vedere la sua faccia, e quella degli altri, quando oltre alle pietre scaricheremo anche voi... senza contare la bella riunione di famiglia,» indicò con un cenno del capo il gruppo che li aveva seguiti da Caer Donn. «Sarà una giornata interessante!»
Ridacchiando tra sé, Illa riprese il suo posto in testa alla carovana. Asa la seguì con lo sguardo, aspettando che fosse abbastanza distante da loro per tornare a distendersi, afferrandosi ad una delle mie mani e stringendola al petto.
«Ho paura, koi...»
Strinsi le mie dita attorno alle sue. «Come quando ti hanno portato da me?»
«No,» alzò gli occhi, lo sguardo non era quello del figlio che gli altri vedevano in lui, ma come quello che Hisie mi aveva regalato ogni volta che i suoi occhi incontravano i miei. «Non cambierai idea vero? Hai promesso...»
Liberando la mano dalla sua stretta, iniziai ad accarezzargli i capelli. Per un breve istante le due Rinunciatarie ci fissarono sorridendo. Ai loro occhi Asa doveva apparire come un bambino spaventato dall'improvviso cambio di abitudini, ed era meglio che continuassero a pensarla così. Solo la mercenaria, voltandosi di tanto in tanto per controllare il retro del gruppo, lasciava cadere uno sguardo su di noi, per tornare poi a voltarsi in avanti, scuotendo la testa ma sorridendo tra sé.
«Sì,» confermai alla fine. «Ho promesso e non cambierò idea.»
Asa si girò di schiena, fissandomi sorridendo. «Avremo una casa nostra e nessuno verrà a disturbarci,» continuai a bassa voce.
«Solo chi inviteremo?» il tono di Asa aveva ripreso sicurezza.
«Certo, solo quando lo decideremo noi,» confermai, un bel cambiamento rispetto alla vita quasi pubblica che avevamo condotto fino ad allora.
«Credo che non sarà troppo male, allora,» decise Asa, «soprattutto se saremo vicino al bosco e se resterai fuori con me qualche notte...» si riaccomodò sulle mie ginocchia, scivolando lentamente nel sonno.
Continuai ad accarezzarlo fino a quando non fui certo che si fosse completamente addormentato poi, trovando una posizione comoda anche per la mia schiena, mi preparai a passare in quella posizione il resto del tragitto previsto per quella giornata.
Sharra aveva previsto il vero, come sempre del resto. La mia vita era cambiata, in maniera imprevista e definitiva.
Che il resto del mondo fosse pronto a questo cambiamento era una cosa che non importava né a lei né, a pensarci bene, a noi.










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Disclaimers

Emyn Dunlee, che da anni vive con il Popolo delle Forge, viene inviato a Elvas per controllare il carico di matrici che Dom Aldaran ha concesso alla Torre del figlio.

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Ultimo aggiornamento: 31/12/2008