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[torna a Racconti][E.S.T. prima parte: pE -19; seconda parte: pE -1, dicembre; terza parte: dE +2, gennaio; con vari flashback a pE -18; pE -1, settembre; dE +1, febbraio]
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La strada per Elvas

Daenerys & Kennard Hastur

Carcosa

Dom Raphael Hastur fece un breve cenno al coridom, facendogli di avvicinarsi.
«Hai preparato tutto come ti avevo ordinato? Quello di stasera è un avvenimento troppo importante per non riuscire nel migliore dei modi.»
Il tono dell'uomo era secco come il trave del caminetto che scoppiettava nel piccolo studio, ma l'altro, fedele servitore da molti anni, non ci fece caso. Era il suo modo. Nonostante i suoi modi spicci e senza troppi giri di parole e la fama di padrone severo, era benvoluto perché preciso e giusto con i sottoposti. E soprattutto perché era sempre pronto ad aiutare chiunque nei momenti del bisogno. Ricordava un paio di annate in cui, per mandare viveri e fieno ai villaggi sepolti dalla neve di tempeste troppo violente anche per la stessa Darkover, si era messo personalmente a capo delle spedizioni di soccorso.
«Certamente Dom Raphael.»
«Pregate Damon di venire da me.»
Il coridom si inchinò brevemente ed uscì dalla stanza per eseguire l'incarico impartitogli, ma non ebbe neanche il tempo di iniziare la ricerca, perché il giovane stava appunto venendo nella sua direzione. Alto ed asciutto, muscoloso ed abbronzato come tutti coloro che stanno molto all'aperto, si muoveva con un certo impaccio nel vestito nuovo con i colori degli Hastur che il genitore gli aveva appena fatto trovare in camera. Sprizzava felicità da tutti i pori.
«Vai dom, padre!» Disse chinandosi per baciare sulle magre gote il genitore. «Grazie per il vestito.»
«Ti stavo mandando a chiamare, figliolo. Mastro Carth, chiudete la porta e badate che nessuno venga a disturbarci. E tu siediti.» Disse al figlio accennandogli l'altra poltrona davanti al caminetto. L'uomo si alzò e prese da un tavolino due piccoli e preziosi bicchierini di cristallo con minuscoli ornamenti in argento a forma di abete che luccicavano nell'interno del vetro e vi versò del firi da una bottiglia del medesimo servizio.
«Sono bicchieri molto antichi,» disse porgendone uno al ragazzo.
Damon prese il bicchiere ed aspettò che il padre si fosse seduto per fare altrettanto.
I due uomini sorseggiarono lentamente il liquore, in silenzio e pensieroso il primo, vagamente irrequieto il secondo.
«Come sai,» disse Raphael, «per te stasera la festa sarà doppia, avrai il mio riconoscimento ufficiale di figlio e verrà celebrato il tuo matrimonio con Ysabeth Alton y Elhalyn.» Gli bastò sollevare un sopracciglio per impedire di essere interrotto. Proseguì in modo distaccato e quasi remoto, come se stesse parlando tra sé a voce alta.
«Non è stato facile ottenere dal Consiglio il permesso, ma ci sono riuscito ad una condizione: alla mia morte ogni bene di questo ramo della famiglia tornerà nelle mani di tuo zio Marius e della sua discendenza. A parte te non sono mai più riuscito ad avere figli, né legittimi né nedestri.» Il volto gli si illuminò per un attimo in un ghigno silenzioso e Damon captò un pensiero sicuramente lasciato volutamente sfuggire dal genitore "Non che non ci abbia provato".
«Non era facile trovare una sistemazione onorevole per te e molti nel Consiglio si opponevano al tuo riconoscimento. Per motivi d'interesse, naturalmente. A te, come sai lascio il nome, ma anche un buon matrimonio con una dote adeguata. È una tenuta nei pressi di Heatwine che stava andando in rovina: io ho provveduto alle spese per rimetterla in condizioni dignitose.»
«Vi ringrazio, padre e... per la mia futura sposa... l'avete vista? Com'è?»
L'uomo rise di gusto nel vedere l'eccitazione del figlio. "Da giovani siamo fatti tutti nello stesso modo," pensò. "Basta solo l'idea per scaldare il sangue." Gli pose una mano sulla spalla, desiderando per un momento che il tempo tornasse indietro... Ripensò alla madre, figlia illegittima anch'essa di quello scapestrato Ridenow... e che non aveva potuto sposare. Ma una volta uscito dal guscio, il pulcino non può più tornare nell'uovo e lui ora poteva solo fare quello che aveva appena fatto. Rise di nuovo, vedendo la faccia ansiosa del ragazzo: «Non ti preoccupare, non l'ho vista neppure io, ma mi dicono che è una bella ragazza. Ogni cosa a suo tempo. Ma non ti ho chiamato qui solo per questo.»
L'uomo si alzò e si avvicinò ad uno scrittoio, ben protetto da una serratura a matrice. Con un sommesso schiocco la serratura di un largo cassetto sotto il piano di scrittura si aprì, ed il vecchio ne estrasse un oggetto lungo e stretto, ricoperto da un drappo di seta color nero e argento. Era una spada, massiccia e ben affilata, con l'impugnatura impreziosita da una treccia di rame ed uno stemma in argento a forma di abete impreziosiva la guardia. Lungo la lama, da un lato, un'iscrizione recitava il motto degli Hastur: Permanedal.
«Anche questo è un oggetto di famiglia, ma mi sono rifiutato di farla rientrare fra i beni che torneranno alla famiglia alla mia morte.» Saggiò l'affilatura della lama con il pollice e soddisfatto per l'esito, dopo averla passata con una pelle morbida e rimessala nel fodero, la consegnò al figlio. «Ecco, questo è il mio regalo personale per il tuo matrimonio,» disse, «portala con onore.»


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Ysabeth non riusciva a stare ferma. Percorreva la stanza avanti e indietro, con passi imperiosi e rumorosi, accompagnati da sonori e ripetuti sospiri di disappunto.
«Vuoi calmarti sorella? Non capisco questa tua agitazione. Damon è un bell'uomo, non trovi?»
Caitlin, seduta vicino al fuoco, lisciava il velo nuziale della sorella, lo sguardo assorto e lontano.
«O, tu non puoi capire, Caitlin. Per te andrebbe bene anche sposare un cralmac
Caitlin alzò lo sguardo dal fuoco, irritata.
«Ysabeth... vuoi calmarti? Fino a ieri eri così entusiasta di questo matrimonio... vedevi in esso la tua realizzazione. Credevo che Damon ti piacesse!»
Ysabeth si avvicinò alla sedia della sorella ed inginocchiandosi di fronte ad essa, pose la testa nel grembo della sorella: «Perdonami Caitlin. È solo la tensione... Dopotutto... sposarsi non è certo cosa da tutti i giorni! E poi sono così tante le mie paure: cosa sarà della mia vita insieme a quell'uomo? Ma soprattutto... come potrò vivere senza di te al mio fianco? Tu sei la persona che più amo al mondo. Come posso lasciarti?»
«Sorella... non devi temere nulla! Damon sarà un ottimo marito, e poi... io verrò spesso da te... come potrei lasciare la mia piccola sorellina? E poi anch'io non potrei vivere senza il tuo sostegno... non ci lasceremo mai... soddisfatta ora?»
Ysabeth abbracciò di slancio la sorella e Caitlin, baciandola sulla fronte, la fece alzare in piedi: era il momento degli ultimi preparativi prima della cerimonia. Le pose il velo azzurro sul capo, poi con sguardo materno ed un dolce sorriso sulle labbra, seguì la gemella che usciva dalla stanza per avviarsi verso la sua nuova vita.
La sala era gremita. I parenti degli sposi si assiepavano lungo le pareti, per lasciare alla sposa un ampio corridoio centrale: bisbigli di approvazione e sorrisi si riversavano sulla giovane, che oramai, dopo i primi attimi di esitazione, era completamente calata nella parte, da perfetta comynara quale sempre era stata. Al fondo della sala l'attendevano suo cugino, Rickon Alton ed il suo promesso sposo: Ysabeth non poté fare a meno di sorridere di fronte alla prestanza del giovane; le sue paure erano state fugate in un battito di ciglia, di fronte a quel ragazzo affascinante e dal sorriso dolce. I suoi passi si fecero sempre più decisi a mano a mano che si avvicinava al fondo della sala: la mano che tese a Damon era sicura, ed il sorriso che aleggiava sul suo bel volto era sincero. Dietro di lei gli invitati chiusero il varco che aveva appena attraversato, e la cerimonia ebbe finalmente inizio. Ysabeth scorse il viso sereno e disteso della madre, lo sguardo amorevole e protettivo del padre, e dietro di sé, sentì finalmente la rassicurante presenza della sorella: tutto era perfetto.
Finalmente i braccialetti di rame si chiusero intorno ai polsi degli sposi, e la frase di rito riempì Ysabeth di felicità: "Staccati di fatto, possiate non esserlo mai nello spirito e nel cuore. D'ora in poi sarete sempre una sola persona." Damon si chinò sorridente su di lei, baciandole delicatamente le labbra. Gli applausi furono generali, e la coppia si avviò verso la sala del banchetto. Qui i due novelli sposi bevvero dalla stessa coppa, come voleva la tradizione, e poi aprirono le danze. Ysabeth era veramente contenta, e vedeva nel sorriso di Damon la stessa serenità. I suoi timori erano davvero stati infondati!


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Heatwine

L'uomo alzò lo sguardo al cielo notturno, pieno di stelle. Solo in basso all'orizzonte, verso Armida, la pallida Kyrrdis rompeva il buio e faceva intravedere la linea scura degli alberi che segnavano i confini della tenuta. Si appoggiò alla staccionata che delimitava le stalle, assaporando l'odore acre che ne proveniva, gustandosi tutti i rumori dei cavalli... un tintinnio di finimenti, un battere con lo zoccolo il terreno, un nitrito breve e sommesso.
Quanti anni erano passati da quanto - ragazzetto di dieci anni - era partito per Dalereuth per l'addestramento. Tanti, troppi. Ed ora era tornato solo in seguito alla morte del padre. Senza accorgersene portò la mano al fianco, all'impugnatura della spada che Damon Hastur gli aveva consegnato alla fine del terzo anno di servizio nei Cadetti, prima di partire con la spedizione voluta dal Consiglio, al di là del Carthon, verso le Terre Aride. Gli attacchi di quei predoni e banditi si erano fatti sempre più audaci ed impudenti e richieste di intervento erano arrivate non solo dai villaggi di frontiera, ma dalla zona di Darriel e dal Serrais, addirittura da fattorie a pochi giorni di viaggio da Neskaya e Nevarsin. Da parte di Aldaran naturalmente non era possibile avere informazioni, né era certo intenzione del Consiglio chiederne; tutte le fonti però concordavano nel riportare scorrerie anche negli Hellers e addirittura fin quasi a Caer Donn.
Più che il rumore dei passi fu il ben conosciuto, caldo contatto laran, che interruppe le sue riflessioni; si voltò per andare incontro alla sorella.
«Chiya,» la salutò sfiorandole leggermente una tempia, «sei ancora alzata? È molto tardi.»
Daenerys gli rivolse un triste sorriso, ma fu subito pronta a sfoderare la sua abituale ironia.
«Direi invece che è ancora molto presto, non ti ho sentito venire a letto stanotte. Sei sempre rimasto qui fuori, al freddo. Meno male che siamo in piena estate, altrimenti ora dovrei preoccuparmi di curare anche te.» Lo guardò con occhi umidi di ricordi ancora troppo recenti per trattenere la commozione. «Dobbiamo ringraziare gli Dei che hanno concesso a nostro padre una morte così rapida. Non sarebbe potuto sopravvivere infermo su una poltrona, dovendo chiamare un servo anche per farsi pulire semplicemente il naso!»
Il ricordo degli ultimi avvenimenti assalì anche lui, anche se seppe controllare il tremito improvviso della voce.
«Vieni, rientriamo in casa, chiya. La notte ormai è passata e fra poco sarà l'alba.»
«E dobbiamo parlare di tante cose...»
Nella sala grande della casa il camino era sempre acceso e bastò poco per avere una fiamma calda e forte. Daenerys prese un grosso bricco che fumava e servì due tazze di jaco a sé e al fratello.
«Non c'è stato tempo e voglia di preparare delle frittelle di mele, dovrai accontentarti di un po' di pane di noci,» disse apparecchiando rapidamente un tavolino accanto al fuoco. «A cosa stavi pensando prima? Ti ho visto con la mano sulla spada.» «A nulla in particolare. Lo sai, sono un soldato ed i ricordi vanno sempre in una certa direzione... e poi, ecco,» continuò portando nuovamente la mano all'elsa, «ora come non mai toccando questa impugnatura mi sembra di sentire la mano di nostro padre chiudersi a pugno sulla mia mentre me la consegna.» Sorseggiò cautamente una sorsata del liquido bollente per non scottarsi la lingua. «È stata la sua vera eredità, e mi ha salvato diverse volte la vita.»
«Ora che farai?» lo interruppe con voce ferma anche se quasi sussurrata. «Tornerai a Thendara? Continuerai a comandare ragazzetti di poco più giovani di te?»
Anche se, orgogliosa come era, faceva fatica ad ammetterlo perfino con se stessa, Daenerys aveva paura che il fratello la lasciasse sola, con i ricordi, le angosce ed i rimorsi.
«No, sono stanco di combattere ed uccidere. Né ho voglia di avere ancora a che fare con Dom Bard Alton. Voglio tornare a Dalereuth. La vecchia Fiora mi disse, quando partii, che sarei potuto diventare un buon tecnico. E cosa potrei fare d'altro ormai?»
«Potresti restare qui...»
«È vero che so leggere e scrivere, ma so fare i conti a malapena! E non ho mai potuto apprendere tutto quello che ti ha insegnato nostro padre! Non so neppure da dove cominciare, per amministrare un'azienda. Né forse la voglia di farlo.»
«Puoi sempre imparare! Non sarò mai un'abile maestro come nostro padre... ma posso sempre provare!»
Rise. «Sai come dice il proverbio... si può mandare un somaro a scuola per cent'anni, ma imparerà soltanto a ragliare più forte!»
Sentì nella voce della sorella il tono forte e cogente che solo un Alton può avere: «Kennard... la tenuta ha bisogno di un uomo. Sarò anche un'ottima amministratrice, ma non ho l'ascendente di un Hastur, sui miei sottoposti!»
Gli sfiorò appena una mano con le dita, ma per lui fu come se gliele avesse strette con forza. «So che devi rimanere qui. Almeno per ora.»
«Cosa hai visto Rys?» Le chiese usando il nomignolo che usava quando erano ragazzi. E tremò nel farle la domanda.
Daenerys si alzò e mise un ciocco nel caminetto, poi appoggiò le mani alla mensola tenendosi stretta la testa fra le braccia.
«Nulla di preciso, solo delle immagini fuggevoli. Ma ho visto che lasciavamo la fattoria insieme, a cavallo. E sulla porta della casa ci salutava Mastro Eric, uno dei coridom di re Marius. E tu non avevi la divisa di ufficiale della Guardia. Provavamo una sensazione strana e bellissima nei nostri cuori: speranza... ed un fervore... quasi religioso.»
«Non so che dirti... è successo tutto così in fretta che non riesco ancora a pensare e a decidere con calma.» Chiuse gli occhi ed entrò in stretto contatto mentale con Daenerys. Lei abbassò un poco le barriere e gli mostrò le visioni di cui aveva parlato prima. Vide anche l'immagine della sua partenza precipitosa da Thendara. Sospirò, riaprendo gli occhi ma rimanendo in leggero contatto mentale con la sorella.
"Avevi visto anche il mio ritorno ad Heatwine!" le trasmise.
"Sì. E da quello ho capito che stava per succedere qualcosa a nostro padre."
"E perché non me lo avevi detto, chiya?"
"Perché ho avuto quella visione pochi minuti prima che nostro padre sentisse il cuore che si lacerava all'improvviso. Ed io non ho potuto fare nulla."
Non c'era nulla da aggiungere, e nessuno dei due aggiunse qualcosa.


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Veduta di Heathwine La giornata era limpida e calda e da ben tre giorni non aveva piovuto neanche di notte. Il lontananza si stagliavano i primi contrafforti degli Hellers, che sbucavano imponenti dalla foschia rosata che indugiava sopra le foreste. Dall'altra parte, verso Armida, si intravedeva lo scintillio dell'acqua del lago Mariposa. Il villaggio naturalmente non si poteva vedere, ma se ne udivano tutti i rumori tipici con una chiarezza impressionante. Kennard si voltò a guardare ancora la casa: bassa e con il tetto molto spiovente come quelli che si potevano vedere negli Hellers, appariva ben curata. La serra non era proprio attaccata all'edificio, ma a qualche metro di distanza ed i vetri del corridoio che la univano alla casa erano colorati con tenui tonalità pastello. Tutto intorno ad essa alberi da frutto ed un orto tutto filari di verdura ed ortaglie. A qualche decina di metri di distanza le stalle in pietra ed i fienili apparivano imponenti e nei recinti poté contare una trentina fra cavalli e giovani puledri.
Kennard sorrise fra sé: la sorella si era davvero dimostrata un'ottima amministratrice.
E pensare che la tragedia si era abbattuta presto su quella casa. Il ricordo del passato gli riempì gli occhi di lacrime e sentì come un pugno afferrargli le viscere.
La bella, la dolce Ysabeth non aveva avuto neanche il tempo di abituarsi alla vita matrimoniale. Era rimasta incinta poche settimane dopo il matrimonio ed era morta nel dare alla luce il figlio tanto desiderato. Il padre aveva diviso in stretto contatto laran con la moglie quei momenti terribili, trovando insperato appoggio e sollievo nella cognata Caitlin. Ysabeth infatti aveva voluto accanto a sé anche la sorella gemella, e specialmente nelle ultime, terribili settimane, il contatto fra i tre era stato così stretto e continuo da cementare una fusione quasi totale fra le tre menti. E quando quella di Ysabeth si avviò verso i livelli irraggiungibili del Sopramondo il vuoto che lasciò fu così profondo che le altre due poterono trovare conforto solo una nell'altra. Il ricordo di quei momenti, vissuti attraverso la mente della madre adottiva, lo assalì nuovamente.


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«Spingi!» urlò Caitlin con tutto il fiato che aveva in gola. Sul suo grembo la testa sudata della sorella, il corpo sconvolto dalle doglie. Una mano di Ysabeth era tra le sue, l'altra tra quelle del marito.
Damon sembrava sul punto di piangere, di fronte a quello spettacolo. Secondo la tradizione il marito doveva assistere la moglie durante il parto, per trasmettergli, grazie al proprio laran, la sua forza, e dividere con lei il dolore delle doglie. Ma qualcosa, quella volta, non stava funzionando: Ysabeth si indeboliva di più ad ogni minuto che passava; presto non le sarebbe rimasta più la forza necessaria per mettere al mondo il figlio che tanto aveva desiderato. Caitlin stringeva freneticamente tra le proprie la mano della sorella, accarezzava dolcemente i capelli madidi della giovane, cercando di trasmetterle un po' di tranquillità, di determinazione, di forza. Ma tutto sembrava essere inutile. Ysabeth sembrava aver rinunciato. Urlava all'arrivo di ogni nuova contrazione, ma non spingeva... non con l'intensità necessaria.
Così avrebbero perso madre e figlio, pensò sconsolata Caitlin, le lacrime agli occhi...
Guardò Damon, e nell'ormai usuale accordo entrambi protesero la mente verso quella della donna ormai semicosciente.
Non appena sentì i tocchi familiari del marito e della sorella, Ysabeth si aggrappò a loro con la poca forza che le rimaneva. Visualizzò ancora nella mente Caitlin, tenera e morbida come il nido di pelo di un rabbithorn, sentì l'abbraccio di Damon e lo percepì saldo e forte come la roccia in cui aveva scavato la tana... ma il nido si sfaceva... e la roccia diventava sabbia...
«Ysabeth, mio tesoro, devi farti forza. Se non ti impegni morirai tu, insieme al tuo bambino... non è questo che vuoi, vero?»
Come in un eco delle parole di Caitlin, Ysabeth sentì la fortissima presenza del suo bambino, il bambino che aveva amato dal primo istante... piangeva, immerso in un limbo, sospeso tra la vita e la morte, tra la luce e le tenebre. Piangeva disperatamente, e Ysabeth si disse ancora una volta che doveva dare tutta se stessa per la vita di quella piccola creatura... era un bel maschietto. Ne percepiva la forza, la disperata voglia di vivere.
Ma la presenza dei suoi compagni sembrava affievolirsi, e ritornò cosciente del suo corpo, delle fitte al ventre, del dolore tra le cosce sempre più insostenibile. Attinse di nuovo forza dalle menti di Damon e Caitlin e cercò di resistere, di tener duro, di fare ciò di cui ogni comynara deve essere orgogliosa, dare il figlio tanto desiderato al proprio clan. E questa volta riuscì a resistere. Sentì arrivare la contrazione e stringendo convulsamente le mani che aveva tra le sue, spinse di nuovo con tutte le sue forze, ancora ed ancora, finché il dolore divenne una nube rossastra che le avvolse la mente. E fu sul punto di lasciarsi di nuovo andare...
Ma percepì, più che sentire con l'udito un vagito, e poi un altro... ed il dolore cessò quasi improvvisamente... Ysabeth sorrise, mentre il pianto del suo bambino diventava un eco lontano nella mente, e sentì che stava di nuovo cercando rifugio lontano dal suo corpo.
Caitlin si accorse subito che lo sforzo compiuto dalla sorella era stato fatale: il bimbo, un maschio perfetto in ogni dettaglio, era salvo; ma cosa ne sarebbe stato della madre? Ancora una volta spinse la sua coscienza verso quella di Ysabeth. Ma non riuscì a trovarla. Intravide, indistinta, la sagoma di una donna dai lunghi capelli ramati, che si avviava verso l'orizzonte, e che presto fu inghiottita dal grigiore del Sopramondo. Trovò accanto a sé la proiezione astrale di Damon, ma lei si divincolò, cercando di raggiungere l'ombra davanti a lei. Era disperata, non poteva perdere la sua Ysabeth! Ma mentre cercava di attraversare la nebbia che si faceva sempre più lattiginosa intorno a loro, Caitlin si rese conto improvvisamente che il bimbo era solo e che doveva tornare giù, nel suo corpo. Toccava a lei, adesso.
Stringeva ancora tra le mani il corpo esamine della sorella e sentì Damon che le posava una mano sul braccio, per staccarla dal corpo di Ysabeth ed ebbe un moto di ribellione nei suoi confronti... in fondo era anche per colpa sua che era morta la sorella. Ma Damon era rimasto in stretto contatto con lei e sentì che si ritirava, ferito. Caitlin riaprì gli occhi e riuscì a guardare il volto di Ysabeth, ora più disteso e sereno, nella morte, avvertì il pianto del bambino, la voce rauca e carica di tristezza di Damon che parlava con la levatrice, l'andirivieni delle cameriere. E ricordò all'improvviso quello che le aveva detto la sorella prima dell'inizio del travaglio: «Caitlin, sorella, se io non dovessi riuscire, dovrai essere tu la madre del mio bambino.»
Allora si alzò, le posò un lieve bacio sulla fronte, come aveva fatto il giorno delle sue nozze, e le disse addio.


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L'anno successivo Damon aveva sposato di catenas Caitlin, e così lui e Daenerys erano cresciuti insieme, dividendo marachelle e punizioni, piccole scoperte e grandi emozioni. Rys naturalmente aveva sempre messo i pantaloni e le camicie del fratello, ma oltre agli abiti indossava letteralmente il ragazzo, standogli talmente appiccicato addosso che la pur comprensiva Caitlin aveva cominciato a preoccuparsi. E lui si era talmente abituato ad avere sempre accanto la sorella, che la considerava quasi una parte di sé e la consultava per ogni cosa.
Sorrise al ricordo: "Con Rys siamo andati vedere il nuovo puledro... Rys ed io abbiamo pensato di fare... Sì, va bene, ma prima sento quello che ne pensa Rys..."
E così Rys aveva imparato ad usare (di nascosto naturalmente) le spade di legno per il primo addestramento e lui era riuscito (sotto l'occhio attento della sorella) a rammendare uno strappo nei pantaloni nuovi ed insieme avevano imparato a strigliare i cavalli nella stalla e a raccogliere le erbe giuste per la piccola farmacia di casa.
Ma il mondo va come vuole e non come si vorrebbe e venne il giorno in cui per la prima volta Kennard non poté condividere un'esperienza con la sorella: il primo attacco del male della soglia.
Venne molto precocemente a soli dieci anni (e incredibilmente anche a Rys venne alla stessa età; Caitlin più di una volta aveva detto che sembrava quasi fossero gemelli) e la leronis, quando finalmente tutto finì, disse che era bene mandarlo subito in una Torre. Quando Marelie lo esaminò trovò che aveva ereditato in buona misura i donas degli Alton e in piccola parte l'empatia dei Ridenow. In quel momento ad Arilinn stavano addestrando altri rampolli degli Alton e la Custode decise che era meglio mandarlo a Dalereuth.
Ad Arilinn era invece andata Rys: la sua precocità ed un forte laran (lei aveva ereditato oltre ad una leggera empatia del tutto simile alla sua, i donas degli Elhalyn) sembrava la rendessero adatta ad avere l'addestramento da Custode. Ma invece il suo fisico, forse provato dai forti attacchi del mal di soglia, non aveva retto, e dopo due anni era dovuta tornare sconsolata ad Heatwine.


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«Un secal contro la fattoria che indovino cosa stai rimuginando!»
La voce squillante di Daenerys, che gli si era avvicinata silenziosamente, lo fece sobbalzare e portò d'istinto la mano alla spada.
«Vedi?» disse scuotendo la testa e sorridendo a mezza bocca. «Sono sempre in tensione, come farei a restare in mezzo a gente normale, qui in campagna...»
«È normale, sei un Ufficiale della Guardia e sei un soldato!»
Kennard le venne vicino, sfiorandole la tempia con quella carezza che a lei era sempre piaciuta.
«No, chiya, non lo sono più. Ho deciso di rientrare a Thendara e di dare le dimissioni.» Sentì un brivido attraversargli il corpo mentre lo diceva. "La cosa più spiacevole sarà quella di doverlo dire a Dom Bard... ma in ogni modo non sarei mai diventato il Comandante della Guardia..."
"Ti dispiace così tanto?"
Istintivamente tirò su le barriere che si erano leggermente abbassate, ma percepì l'incredulità e lo sgomento della sorella e tornò immediatamente in contatto telepatico con lei.
"Scusami. Non ci sono più abituato..."
«Non importa... è vero, è passato così tanto tempo...» Fece cenno con la mano alle stalle. «Vuoi vedere i nuovi puledri? Ne sono nati ben due la settimana scorsa.»
«Chiya...» disse agitando scherzosamente il dito verso di lei, «vuoi cambiare discorso?»


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Daenerys accarezzava il piccolo puledro, la mente immersa nel limbo dei ricordi. Kennard era uscito a prendere del fieno, e la solitudine, anche se momentanea, l'aveva portata ancor una volta ad allontanarsi dalla realtà. Gli occhi le si riempirono di passato, doloroso e triste passato: la paura e la solitudine quando il fratello era partito per Dalereuth, in preda al male della soglia, il viso teso di suo padre dopo il suo primo attacco, i dolori delle visioni, che aveva dovuto sopportare da sola, ad Arilinn... e poi, quando credeva di aver ritrovato la serenità, tornata ad Heatwine... sua madre, la sua adorata madre...
"Continui a perderti in questi tristi ricordi, chiya... la tua angoscia mi provoca un dolore indicibile..."
Kennard, con il suo tocco lieve, aveva intravisto i pensieri della sorella, ed ora cercava di consolarla.
"Non riesco a togliermi dalla mente quelle immagini, che morte orrenda... come hanno potuto gli Dei?"
Le lacrime le sgorgarono dagli occhi senza che riuscisse a trattenerle. Kennard la strinse tra le braccia, cullandola dolcemente, intensificando il rapporto telepatico. Non avevano mai parlato molto della morte di Caitlin. Kennard capì che quello era il momento adatto.
"Sfogati Rys, dopo ti sentirai meglio... e forse riuscirai a guardare al passato senza questa terribile angoscia."
Le accarezzò la tempia, e sentì che la sorella si rilassava tra le sue braccia. Rys abbassò le barriere, cercando di trasmettere al fratello ciò che provava.
Mille immagini, mille colori, mille emozioni lo investirono. Voci sussurrate e voci gridate, carezze e sorrisi, indifferenza e dolore...
Poi il flusso dei pensieri si stabilizzò, trasmettendogli una precisa serie di sensazioni.
Una fragile ragazza di quattordici anni, tra le braccia di una donna bella e luminosa, una giornata assolata... e tre cavalli che salivano il pendio di una collina. Una storia che Kennard conosceva fin troppo bene. Una semplice gita a cavallo, in una giornata d'estate, si era trasformata in un'immane tragedia. La sua madre adottiva, Caitlin, mentre cercava delle erbe medicinali, era stata morsa da una formica-scorpione.
Ora le immagini traboccavano di, angoscia, selvaggio dolore. Caitlin era morta tra le braccia del marito, le mani strette a quelle della figlia: il volto gonfio e congestionato rivolto al cielo, il corpo agonizzante sconvolto dalle convulsioni, lo sguardo assente e remoto. Aveva sussurrato il nome della figlia, a fior di labbra... ed i suoi occhi si erano chiusi.
Padre e figlia, disperati, avevano pianto per mesi l'ingiusta morte del più prezioso gioiello di Heatwine. Quell'immane tragedia li aveva uniti, aveva cementato il loro già saldo rapporto: in assenza di Kennard, l'uno dipendeva dall'altra.
"E pensare che non ho potuto nemmeno dirle addio," pensò angosciato Kennard: Caitlin era stata l'unica madre che avesse mai conosciuto. L'aveva sempre amata, e lei l'aveva sempre ricambiato con pari affetto. Quando era accaduta la disgrazia, lui si trovava a Thendara. Era tornato subito ad Heatwine, per consolare sua sorella... e per essere consolato.
Intanto il pianto di Daenerys, liberata dal dolore del ricordo, si era fatto sommesso; Kennard tirò un lungo sospiro, accarezzando i capelli della sorella.
«Kennard...» sussurrò la ragazza, «ora la mia famiglia sei tu... siamo rimasto solo tu ed io...»
«Non temere... insieme, ce la faremo.»
Una lacrima sfuggì dagli occhi del giovane, ma lui fu lesto ad asciugarla: doveva essere forte, per se stesso e per Rys.


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Daenerys gli servì ancora una paio di mestolate di zuppa di farro e vide con soddisfazione il fratello tagliare una larga fetta di pane di noci. Ma vide anche con meraviglia che tirava fuori il suo coltello personale da uno stivale e che non usava - come era d'uso comune - il corto pugnale che avrebbe dovuto avere al fianco. Kennard percepì la curiosità della sorella e sorrise.
«Non posso usare il pugnale. Anche se l'ho pulito più di una volta temo che sia rimasta sulla lama qualche traccia di veleno.»
Con un rapido gesto sguainò l'arma e la pose sul tavolo. Era più lunga e stretta del normale e la lama era leggermente ricurva.
«E... dove l'hai preso?»
«Non l'ho preso, me l'hanno regalato. Era di un predone delle Terre Aride, un capo. Un certo Jaraz.»
La donna era visibilmente incuriosita: prese la brocca del vino e gli riempì a metà il boccale:
«Dai, racconta...»
Il giovane scoppiò in una sonora e contagiosa risata.
«Che fai! Mi versi da bere per sciogliermi la lingua?»
Daenerys arrossì, punta sul vivo.
«No! Ma che dici!»
«Non ti conoscessi! Sei più curiosa di uno Ya che sente odore di chervine arrosto!»
Rys fece finta di mettergli il broncio, nel vecchio, adorabile modo che usava quando da piccola vedeva il fratello partire per qualche nuova, eccitante scoperta senza essere invitata.
«Conosco anche quello,» la canzonò, «ma non ti preoccupare, hai vinto anche questa volta.»
Bevve un sorso dell'aspro vino rosato e continuò.


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Avevo quasi finito i primi tre anni di servizio nelle Guardie ed ero ancora indeciso se tornare ad Heatwine per restarvi o rinnovare l'impegno per l'anno successivo e prendere i gradi di ufficiale. Ma Dom Bard una sera radunò tutti gli allievi anziani e chiese dei volontari per quella che mi sembrò subito un'avventura irresistibile. Si trattava di prevenire le solite razzie autunnali dei predoni delle Terre Aride, pattugliando tutta la zona dalla foce del Carthon fino alle prime grandi foreste e spingendosi ben addentro nel deserto. Fu un periodo di fatiche durissime e di cavalcate allucinanti. I banditi erano abilissimi nel dileguarsi appena ricevevano notizie della nostra presenza e ci sfuggivano come acqua fra le dita. Nelle foreste, poi, c'era sempre il pericolo di agguati mortali, anche se eravamo sempre a gruppi di almeno due dozzine. Ma una volta riuscimmo a tendere la rete e a non farci sfuggire gli uccelli: li intrappolammo in una zona dove il Kadarin era inguadabile per miglia e la foresta meno fitta del solito. Fu una bella battaglia: sbaragliammo una delle più grosse bande che si fossero mai aggirate nei sette Domini. A sera avevamo finito di ripulire la zona ed avevamo una ventina di prigionieri da riportare a Thendara. Fra essi il capo, un certo Jaraz, un uomo alto e robusto, con una cesta di capelli biondi che gli arrivavano fin quasi a mezza schiena. Era stato catturato solo perché una guardia era riuscita a dargli un colpo sulla testa, da dietro, mentre lui teneva a bada tre dei nostri. Bene, per fartela breve, chiese di essere ucciso subito, non voleva finire in una qualche cella di Thendara. Naturalmente nessuno gli diede ascolto e lui prima cominciò ad imprecare, poi a provocarci, a chiamarci emmasca, cristoforos, ombredin... ed anche termini peggiori in almeno mezza dozzina di dialetti. E fu allora che commisi un'imprudenza che quasi mi costò la vita: gli imposi in modo brusco di stare zitto, altrimenti l'avrei fatto fustigare davanti ai suoi uomini. È un momento che ricordo ancora: aveva due occhi azzurri freddi come il ghiaccio degli Hellers, che si piantarono nei miei come pugnali. Sicuramente aveva una certa dose di laran naturale, perché sentii chiaramente un rude attacco alle mie barriere. Non avevo in realtà mai usato veramente la Voce, ma quella sera lo feci.
«Sei un vigliacco come tutti gli Hali'imyn o come diavolo vi chiamate.»
«Sei tu che hai cercato di usare per primo il laran,» ribattei.
Tacque un attimo - in fondo avevo ragione - e allora mi tentò in un altro modo.
«Siete dei vigliacchi lo stesso, mi avete catturato solo colpendomi alle spalle!» fece una pausa teatrale, e fu allora che mi tese il tranello in cui caddi. Mi sfidò. «Ma tu, così bravo con quel tuo laran,» sembrò quasi sputasse pronunciando la parola, «hai abbastanza fegato per sfidarmi?»
«Certo!» la parola mi sfuggì di bocca prima ancora che me ne rendessi conto, ma se la stupidità fosse un crimine...


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«... metà della razza umana sarebbe impiccata ad ogni crocicchio!» Finì la sorella. «Lascia stare i proverbi, continua! Se non ti avessi davanti sarei già morta di paura!»
«Bene. A quel punto non potevo far altro che accettare, ma il mio ufficiale non sentiva ragioni: non voleva perdere uomini in stupidi duelli.»


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«Soldato!» La voce dell'uomo era ora ferma e sicura. Parlò in ottimo casta, sicuramente per non farsi capire dai suoi. «Se ti ucciderò i tuoi compagni potranno impiccarmi al primo ramo che incontrano, ma se morirò combattendo avrò recuperato il mio kihar... il mio prestigio, il mio orgoglio, davanti ai miei uomini.»
Fu così che ci mettemmo in mezzo ad un cerchio di guardie con la spada sguainata, l'uno di fronte all'altro. L'unica cosa su cui il mio ufficiale fu irremovibile furono le armi. Non gli fu consentito di usare le proprie, che sicuramente avevano la lama avvelenata.
Forse mi vide così giovane che pensò fossi inesperto. Ma la nostra è una scuola dura (rabbrividì al ricordo dei lividi lasciati sulle sue costole dalle dure spade di legno usate per l'addestramento) e non siamo inferiori a nessuno. E poi in quel mese nel deserto avevo imparato dai miei compagni molti dei trucchi e delle finte usate dagli uomini delle Terre Aride... Combattemmo per quasi un'ora ed eravamo così stanchi che ognuno di noi avrebbe accolto con disperato sollievo il colpo finale dell'altro. Forse fu stanchezza, non lo so, ma sbagliò una finta e si infilò praticamente da solo sulla mia spada. Spalancò gli occhi e lasciò cadere la sua. Prima di morire disse qualcosa a voce alta ai suoi uomini, poi rivolto a me:
«Mi hai reso onore. Il pugnale, il pugnale che mi avete tolto quand'ero svenuto... è tuo, te lo regalo e...» gli occhi gli brillarono in un guizzo di perfidia... «attento a come lo usi, ha la lama avvelenata.»


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«Ecco, sorella, ora hai capito perché non uso il mio pugnale per affettare il pane.»
Rys sorrise; adorava il modo che aveva Kennard di raccontare le sue avventure: vedeva i suoi occhi accendersi nel ricordo della battaglia, la voce farsi fiera ed orgogliosa.
Gli versò l'ennesimo bicchiere di vino, e Kennard rise divertito: «Sono ancora convinto che tu mi stia versando da bere per sciogliermi la lingua!»
Daenerys si unì alla risata del fratello, sedendosi vicino al fuoco.
«La serata è ancora lunga e gli anni che hai trascorso lontano da casa tanti. Allora, dove eri rimasto?»
«La storia è finita qui.» Poi, cambiando discorso. «Ho potuto vedere che sei diventata un'ottima amministratrice; nostro padre è stato un egregio maestro, vero?»
«Certo, cosa credi? Nostro padre era ottimo in tutto: il suo carisma, il suo affetto, il suo orgoglio, il suo coraggio, la sua benevolenza... la sua inaspettata umiltà...»
Una lacrima involontaria rigò il volto di Daenerys.
«Mi manca. Ma ho potuto imparare da lui mille e mille cose. Sarò forte. Come lui è sempre stato.»
Kennard si pentì di aver fatto quella domanda: i suoi discorsi con Rys rischiavano continuamente di finire tra le lacrime. Non che la loro situazione fosse poi così rosea... ma se avessero passato il tempo a piangere le loro perdite e quello che ormai non potevano più avere, non sarebbero andati da nessuna parte.
«Suoni ancora il ryll, chiya
«Certo! Quando è stata l'ultima volta che mi hai sentito suonare, Ken?»
«Mi metti in difficoltà... sicuramente secoli fa... forse per un mio compleanno...»
«In quest'ultimo inverno sono migliorata molto: passavo i pomeriggi con papà, e suonavo spesso per lui...»
«Che ne dici di suonare per me, ora?»
«Sarà un immenso piacere.»
Uscì dalla stanza, tornando poco dopo imbracciando la piccola arpa. Si sedette su una seggiola, le spalle al fuoco. Cantò una ballata lenta, ma non malinconica. Il canto di un mare lontano e cristallino. E la tristezza che aleggiava nei loro cuori si dissolse nella dolce armonia della musica.


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Verso Elvas

Ancora una volta. Quelle visioni la lasciavano senza fiato, senza la capacità di respirare.
Eppure non era angoscia. Qualcosa di più profondo e insondabile: un senso di mancanza, di incompletezza.
Quella donna dal volto così dolce e grave, vestita di cremisi, che appariva e scompariva in un lampo di luce... e le tendeva la mano.
Cosa significava? E poi vedere, con gli occhi di un'aquila, quella valle stupenda, un gioiello, pura, incontaminata. E quell'edificio, che sorgeva sulla valle, sempre più alto, come uno smeraldo incastonato tra mille altre pietre. Era una Torre? Una Torre verde?
Quella visione le dava un'energia nuova, la attirava, la sconvolgeva, come la luce racchiusa in una matrice.
Dopo la partenza da Arilinn, si era dedicata poco al suo donas. A parte qualche sporadica visita nel Sopramondo, per rivedere il giardino della Torre, o per cercare di avere visione del futuro, il suo potere era quasi inattivo.
Non era mai riuscita ad ammetterlo, nemmeno con se stessa: l'impossibilità di diventare Custode l'aveva segnata.
Il potere e le responsabilità delle donne in cremisi l'avevano sempre affascinata. Quando era entrata ad Arilinn, per il suo addestramento, aveva creduto di trovare la sua strada. Sapeva di averne le capacità: il suo laran era molto forte, il suo dono potente.
Anche se la sua capacità di vedere possibili futuri sotto forma di visioni (nonostante l'addestramento) riuscivano spesso a sconvolgerla. Quante notti passate insonni, sconvolta da ciò che ogni suo passo avrebbe potuto creare nella sua mente: mille, infiniti futuri, infinite possibilità. A volte nulla potevano le cure attente e premurose del monitore della Torre e della stessa Marelie: fino a quando non riusciva a chiudere gli occhi sul mondo, il futuro, anzi, i futuri, la perseguitavano. Ma pian piano era riuscita a prendere il controllo della sua mente, a fissare le visioni più simili o ricorrenti, a cancellare subito tutto il resto.
Ma seppur armata di una poderosa forza di volontà, il suo corpo era troppo fragile, la sua mente troppo insicura: impossibile diventare una Custode... questo il verdetto. Maledette visioni!
E così, tornata a casa, aveva preferito dimenticare le sue potenzialità, per evitare di soffrire a causa dell'impossibilità di sfruttarle; l'amore dei genitori ed Heatwine avevano fatto il resto.
Ma ora, quella donna, quella Custode, risvegliava in lei l'orgoglio di un'operatrice laran, la perentoria volontà di usufruirne, per migliorare la propria vita e quella degli altri.
Ed ora le visioni erano quasi un sollievo, perché testimoniavano le sue capacità, le potenzialità della sua mente. Non poteva vivere come un animale, ignara dei mille mondi della mente, ignara del suo potere, di ciò cui anelava la sua anima.
Come aveva potuto, per così tanto tempo, mentire a se stessa?
Quello era il suo destino... ed ora le visioni, e la Custode che ne era la protagonista, le davano la possibilità di realizzarlo.
Kennard avrebbe capito, ed avrebbe condiviso il suo sogno.
Ogni telepate doveva farlo. Che altre possibilità c'erano?


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L'anno che seguì fu un anno di convalescenza, per entrambi, ma anche di duro e gratificante lavoro. Kennard e Daenerys curarono insieme le loro profonde ferite, attingendo forza e volontà l'uno dall'altra.
Kennard si era abituato alla sana vita di campagna della tenuta. Era tornato a Thendara solo una volta, per dare le dimissioni dalla Guardia, ma non ne sentiva la mancanza. L'inverno era appena cominciato e c'erano molte cose da fare. Riparare il tetto di un fienile che lasciava filtrare l'acqua, preparare i piantumai nella serra, controllare le numerose cavalle gravide che avrebbero figliato nel maggio.
Doveva ammetterlo: si era appassionato alla sua nuova immagine, alle sue responsabilità. Essere Dom di Heatwine lo gratificava e rendeva orgoglioso molto più di quello che avesse creduto.
Le fessure nelle imposte della sua camera lasciavano entrare lame della luce rossastra dell'alba, era ormai ora di alzarsi. In cucina avrebbe trovato come sempre la sorella già alzata, il fuoco acceso ed una buona colazione a base di miele, pane di noci e jaco. Sbadigliò, stiracchiandosi.
Aveva appena finito di prepararsi (rimpiangendo per l'ennesima volta di non poter avere della sana e bollente acqua termale, ma la poteva trovare solo in paese), quando sentì bussare alla porta.
«Ken, sono io, posso entrare? La voce della sorella aveva uno strano tono di urgenza.»
«Certo, vieni, sono già vestito,» le disse aprendo la porta, «che succede? E come mai quelle occhiaie? Non hai dormito stanotte?»
«No, sono andata nel Sopramondo.»
«Da sola! Senza nessuno che ti controllasse!» si inquietò, «eppure anche tu sei un monitore, sai bene che non...»
«Oh ti prego, non farmi la ramanzina... lascia perdere! Quando tu non c'eri ci andavo lo stesso, basta stare attenti a quello che si fa.»
«E allora?»
Daenerys chiuse la porta e si mise a sedere sullo sgabello ai piedi del letto, mentre il fratello apriva le imposte facendo entrare la luce del giorno nella stanza.
«Sono andata un po' in giro. Prima al livello dove vengono scambiati i messaggi dei relè, poi in un altro livello, quello che Marelie usava per l'addestramento delle possibili Custodi. E lì ho sentito come un richiamo, un appello. Era sicuramente una Custode: anche se non l'avevo mai vista ho avuto come l'impressione di averla conosciuta da sempre.»
Kennard, ora, cominciò a sentirsi irrequieto. Rys non era proprio il tipo che si precipita all'alba nella stanza del fratello solo per un brutto sogno.
«E poi?»
«Non parlava direttamente con me. Era come se si rivolgesse a tutto il Sopramondo, a tutti i telepatici Darkover in ascolto. Chi è disponibile a lavorare e studiare per riportare Darkover agli antichi splendori ha un posto dove recarsi. Una nuova Torre: Elvas. Ho inciso nella memoria l'immagine del percorso per arrivarci: è in una vallata lunga e stretta, tra i Domini degli Aldaran e degli Ardais. E lì c'è un villaggio che sembra abbandonato da secoli ed una Torre... come dire... sembra che sia stata tagliata ad un terzo della sua altezza, ma è sicuramente una Torre. E può essere ricostruita... Kennard... ricostruire una Torre, con la forza delle matrici!»
I suoi occhi ardevano di un fuoco che Kennard non aveva mai conosciuto. Quasi aveva paura... il fervore di sua sorella era qualcosa di soprannaturale.
«Chiya... ma sei sicura che non si sia trattato di un sogno?»
La ragazza si adirò come mai aveva visto: il volto era diventato rosso e gli occhi le brillavano di una luce di orgoglio e di sfida da mettere paura. Sembrava quasi in procinto di attaccarlo col suo donas, o di scatenare forze incommensurabili. Si alzò dallo sgabello, con le mani sui fianchi e gli si pose davanti, fissandolo negli occhi.
«Ma per chi mi hai preso! Credi che non sappia distinguere una visione da un sogno? È vero che sono solo un monitore, ma avevo cominciato l'addestramento per diventare Custode, e se non fosse stato per quei maledetti attacchi del male della soglia che avevano reso fragile il mio corpo avrei potuto continuarlo! Certo che non sognavo!» Si interruppe per riprendere fiato e sistemare la treccia che nell'eccitazione si era un po' allentata. (Kennard si rese conto che la sorella si era abituata a portare una crocchia alta sulla testa, lasciando spesso il collo scoperto. Non era decoroso, avrebbe dovuto dirglielo, ma quello non era certo il momento!)
«Dai! Calmati sorellina. Scusami, non volevo offenderti, continua.»
«Ti dirò di più,» proseguì lei restando in piedi ma distogliendo lo sguardo. «Le immagini che questa Custode trasmetteva erano praticamente le stesse delle mie visioni di questi ultimi due anni. Noi due a cavallo, sul crinale di una collina. Da soli e senza scorta. E davanti a noi, in basso nella vallata un villaggio ed una Torre strana. Ken! È quella stessa Torre del messaggio! È inconfondibile!
«Ringrazio tutti gli Dei di non avere il dono degli Elhalyn, e questo è uno dei momenti in cui vorrei che non lo avessi neanche tu!» Andò alla finestra e si affacciò, ammirando il solito meraviglioso spettacolo del mare di nebbia mattutina da cui in lontananza sorgevano incantati i primi contrafforti degli Hellers. «Non puoi farmi questo. Non ora!»
Chiuse gli occhi ripensando all'anno appena trascorso: alle inevitabili difficoltà che aveva dovuto affrontare passando dall'ordinata e metodica vita militare ai problemi connessi con la conduzione della tenuta. La sorella si era dimostrata davvero un'ottima amministratrice ed aveva imparato dal padre mille e mille cose che lui neppure si era immaginato esistessero. Aveva imparato a non trattare i contadini che lavoravano per loro come soldati da comandare. A trattare il prezzo dei cavalli al mercato, a preoccuparsi per il fieno da far stivare in modo adeguato per l'inverno. Insomma aveva avuto un anno di vita faticosa e intensa come non aveva mai immaginato. Ed ora questa chiamata, queste visioni della sorella che minacciavano di stravolgere ancora una volta la sua vita. Sentì il tocco lieve di Rys e si rese conto che la sorella stava cercando di parlargli.
"Ken, abbi fiducia in me, anche questa volta. Non vedo futuri alternativi a quelli delle mie visioni, o meglio, ce ne sono. Ma tutti portano allo stesso risultato: noi due a cavallo da soli su quella collina."
"Rys. Rys. che sarà di questa tenuta, del lavoro di una vita di nostro nonno e di nostro padre! Ed ora anche del nostro! Stavo cominciando a pensare ad un marito per te e ad una moglie per me. A come riorganizzare la casa. Ed ora dobbiamo lasciare tutto?"
"Fratello, per il nostro futuro ho avuto sole delle immagini confuse e a volte contraddittorie fra loro. Ma in nessuna di esse appariva la nostra tenuta."
"E allora che senso ha avuto il farmi lavorare così tanto per imparare tutto quello che era necessario! Lo capisci che è stato tutto inutile?"
"Forse no. Anzi, sicuramente no. Resterà sempre nostra. So già a chi affidarla e come controllarla di tanto in tanto. Ma questo periodo qui non è stato inutile, è servito soprattutto a te. Eri troppo duro, troppo cupo. Troppo soldato, insomma! Ora sei tornato ad essere il mio fratello di sempre, quello che ho sempre ricordato e amato."
"E tu la mia sorellina impicciona ed attaccata sempre ai miei pantaloni."
Ma lo pensò con dolcezza e con un certo rimpianto.
La sentì sorridere e si rese conto che lei stava abbassando un po' le sue barriere.
"Kennard... queste visioni mi hanno donato nuovamente la volontà di esercitare il mio laran ... di essere una telepate attiva... utile, per qualcosa di più alto... non negare ad entrambi il nostro destino... Ed ora guarda..."
Ed anche lui vide il villaggio. Vide la Torre. Vide la valle allungarsi incontaminata tra i monti. E vide loro due a cavallo, ritti sulle staffe, guardare in basso, come per cercare la loro strada. E forse l'avevano davvero trovata.









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Disclaimers

In un gioco di flashback, la decisione di Kennard e Daenerys Hastur di abbandonare la loro tenuta per recarsi a Elvas.

Credits

Veduta di Heathwine, immagine fornita all'autore, provenienza sconosciuta

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Ultimo aggiornamento: 31/12/2008